Gli album che non avreste dovuto perdere in questo 2020
SOUND
30 Dicembre 2020
Articolo di
Luca GissiGli album che non avreste dovuto perdere in questo 2020
Come abbiamo avuto modo di analizzare pochi giorni fa attraverso un precedente articolo , anche il 2020 è stato, dati alla mano, un anno che ha segnato il debutto di alcuni fortunati successi. Insieme a questi, altri lavori hanno garantito qualità, con o senza numeri alle spalle: anche in tal senso è stato un anno di inaspettata vivacità. Oggi apriamo dunque una parentesi che per forza di cose viene sviluppata su scelte meno legate al riscontro numerico e maggiormente connesse al gusto personale: partendo da perle nascoste per arrivare a piccoli miracoli commerciali, sempre mantenendo un occhio di riguardo sul panorama urban, ripercorriamo alcuni dei momenti più importanti della scena nazionale prima e internazionale poi. Dalla scena rap underground ai movimenti R&B, dalle tendenze del pop moderno fino ai suoni più sperimentali, vi proponiamo 10 album italiani e 10 album dal mondo che, tra i centinaia di lavori usciti quest'anno, meritano di essere ripescati.
È ormai assodato che la migliore musica delle nuove generazioni cerchi sempre più di sfuggire dalle anacronistiche etichette dei generi, divenute reclusive: capaci di isolare ciò che gli interessa dalle singoli correnti, i risultati sono spesso i personali riassunti artistici. In questa direzione, nel loro piccolo, sembrano procedere anche i ragazzi della Bnkr44, un vasto ed eterogeneo collettivo spuntato fuori dall'entroterra toscano, un gruppo che passo dopo passo ha inglobato vari nomi di giovani pronti a dire la propria. Le radici diverse dei ragazzi portano a “44.DELUXE” un quadro di idee contrastanti, dipinto di colori quasi plumbei ma non per questo meno vivaci: le proposte musicali, con influenze raccolte dai linguaggi del rap e del pop più sperimentale con un'impronta Garage/Lo-Fi, creano esperienze molto diverse tra di loro. Melodie sognanti verso i territori del dream pop, dell'alt-rock dall'estetica retrò, si scontrano contro furiose rappate su beat trap no melody, con i vari nomi che aggiungono il loro stile, in alcuni casi precisamente inquadrato ai contesti che lo richiedono. Una ricerca musicale quasi intuitiva, che risultando particolarmente brillante, rivela sonorità che in Italia si sentono di rado. I singoli trovano spazio per emergere, ma sul momento, a colpire è proprio la continua instabilità e i costanti cambiamenti di forma: bevute in compagnia, piccole feste tra amici, nottate dietro i monitor in studio e semplici scambi empatici sono la formula della mina innescata dalla Bnkr44. Consiglio spassionato: teneteli d'occhio.
In un anno in cui l’unità di alcune scene è stata talvolta messa in discussione, Genova si è dimostrata un punto di assoluto rilievo nella mappa del rap italiano. Sarà l'aria di mare e le tradizioni che gli girano attorno, ma la poesia espressa dai ragazzi liguri è tornata al massimo del suo splendore in un anno assolutamente prolifico per tutto ciò che concerne Drilliguria, Wildbandana e affiliati. Tra i nomi da citare troviamo sicuramente quello di Bresh, che per la prima volta con “Che Io Mi Aiuti” è riuscito a portare la sua singolare espressività a un pubblico sempre più allargato: tra squarci poetici e interessanti trovate melodiche tutto passa sotto la sua assoluta personalità, il jolly del disco. Una lente che ci permette di comprendere quanto il discorso narrativo intrapreso da Bresh rimanga libero ma fermo su alcune posizioni. Non solo non sembra subire particolarmente il peso di influenze esterne, ma anzi, a tratti sembra respingerle: nelle infinite aspirazioni del mare e dei vicoli genovesi racconta con grande cura di forma e senso di modernità la sua realtà, le sue relazioni, le sue ispirazioni, le sue riflessioni e se stesso in generale. Nel microcosmo marittimo sembra attingere tutto ciò che ha da dire e a cui ha da riferirsi, con un concetto, quella di freschezza, che è difficile non banalizzare se si cerca di esprimerne la sostanza. Ci possiamo girare attorno quanto vogliamo, ma ciò che stupisce di questo disco è quanto sia inaspettatamente fresco: si abbandonano per tutta la durata le convenzioni stereotipate legate al genere per salvarne le più essenziali, padroneggiando il mezzo ma riscoprendolo secondo il suo modo d'intendere. Un'esperienza a tratti esotica e che anche nei molti momenti di intimità nasconde un profondo senso di passione, quasi un calore che si fa vivo. Tutto ben fatto.
Abbiamo già speso parole rassicuranti circa l'ultima opera di CoCo, una voce dall'animo internazionale che si espande nelle formule più ispirate della scena musicale. Anche in “Floridiana” il rapper partenopeo è pronto a intercettare nuovi accenti da più influssi, a dissacrare la tipica immagine del genere e ad aprirsi in campi in cui si sente a proprio agio. Dietro lo stesso linguaggio che rimane centrale nell'economia dei suoi prodotti, il rap, si celano gli elementi più discorsivi, più legati al vissuto concreto dell'artista che riesce con disinvoltura a rendere alleggeriti intensi passaggi personali. La dimensione dei ricordi è particolarmente sviscerata su più piani, con una malinconia di fondo che l'accompagna e che crea il pretesto per un'analisi interiore: a volta nascosta tra le righe, questa è la prova tangibile che CoCo scriva quasi egoisticamente per se stesso. Da questo nasce anche la linea che separa la parte propriamente rap da quella più melodica, incentivata sempre ad affrontare nuove sfide. L'equilibrio vocale che di riflesso si viene a creare e che pesca dagli ambienti più raffinati della musica moderna, è sempre più pronto ad aprirsi a nuovi mondi. Il tutto è racchiuso in una fresca proposta musicale, attenta anche qui alla scena internazionale: assaporate le più moderne soluzioni R&B, non ci resta che gustare tutto ciò che “Floridiana” ha da offrirci. Un CoCo in gran forma, come al solito.
L'effetto estraniante contro la sensazione di quiete, la sottile irriverenza lirica contro la più ispirata gamma melodica fanno di Frah Quintale la più importante voce black di tutto il nostro panorama: nessuno come lui in questo momento riesce a padroneggiare il linguaggio erudito dell'R&B e a iniettarlo in un più generalista, ma non per questo meno rispettabile, ambiente alternativo del pop italiano. Perchè le occasioni propriamente pop, nell'accezione più italiana del termine, sono limitate al minimo, puntando sulle correnti americane ed europee più fresche del genere. Frah Quintale in "Banzai (Lato Blu)" riesce quindi nell'impresa di rendere accessibile un linguaggio che nella forma risulta essere per certi versi di nicchia: sonorità affrontate per esempio in “Buio Di Giorno”, “Lambada” sono totalmente estranee al nostro ambiente. Il tutto è reso possibile da una lucida e atmosferica produzione musicale sottolineata a suon di corali giochi analogici, sample e composizioni. Tornando a Frah, va rimarcato quanto il linguaggio del rap si dimostri di fondamentale influenza per la stesura: pur tradendo del tutto la forma, il disco riesce a suonare perfettamente hip-hop negli scorci urbani, nella leggerezza sentimentale e nella sincera introspezione personale. Insomma, questo disco dimostra come con un linguaggio trasversale, interpretabile e da godere a più livelli, si possa far arrivare senza particolari compromessi un mondo musicalmente selettivo. Aspettando il secondo lato, "Banzai (Lato Blu)" resta forse il più riuscito tentativo di rinnovamento del pop italiano di quest'anno. Una piccola benedizione.
In silenzio, quasi chiedendo permesso, appena entrati nel mondo di Generic Animal ci troviamo spiazzati da un'atmosfera di intimità fuori dai suoi termini più comuni, un universo parallelo, dai tratti provinciali ma slegati dal contesto urbano, in cui le priorità sembrano essere le piccolezze del nostro mondo. Minutissime stilizzazioni ci offrono rapidi assaggi di semplici situazioni rese drammatiche dalla voce spesso straziata, voce che si sviluppa su diversi registri. Così facendo, attraverso un codice particolare, reinventa a suo modo una profonda emotività che si insidia prima nei testi e poi, in maniera se possibile ancora più dirompente, nel lato musicale. In questo ambiente in cui potremmo comprendere le stesse linee vocali, ci sono i richiami ai mondi dell'emo rock, del grunge, della scena alternative, il tutto impacchettato con una moderna rielaborazione. “Presto” è la tanta attesa risoluzione del personaggio Generic Animal, una figura che il grande pubblico avrà già sentito nei panni di strumentista per pezzi di culto della nuova scena italiana: “Rehab” di Ketama126, di cui in “Fresco” troviamo il compagno Lovegang Franco126, come “Sabbie D'Oro” di Massimo Pericolo, che troviamo anche qui in “Scherzo”. Dentro anche Nicolaj Serjotti, affiliato del roaster Tempesta Dischi che conserva la sua rilevanza nel mercato indipendente italiano. Squarci surreali ci fanno perdere o riacquisire il contatto con una realtà, forse un po' deludente, ma che almeno sa ancora regalarci qualcosa di diverso. E “Presto” è qualcosa di diverso, da ascoltare anche il prima possibile: compagno memorabile di quarantena il cui mood generale sembrava cucito appositamente per quei momenti. Assolutamente da ripescare.
Tutto ciò che di buono c'è da aspettarsi da un disco di Mecna è presente anche nel suo ultimo album, ormai il quinto della sua carriera. Superata la parentesi con Sick Luke, il rapper pugliese, dopo aver definitivamente consegnato il suo personaggio musicale a un pubblico sempre più trasversale, torna sui propri passi. Verrebbe da dire che per la continuità che cerca di costruire con il suo percorso, anche questo disco risulta essere frutto di una tutt'altro che inaspettata innovazione: le etichette non contengono più la personalità poliedrica di un Mecna in costante ricerca di stimoli, sensoriali, emotivi, lirici o musicali che siano. Questo si scontra con la sua forte emotività che se in alcuni momenti sembra completamente spogliarsi della sua riservatezza, in altri, a partire dalla stessa copertina, la sottolineano attentamente. Diverse sono le strade in cui questa emotività si incanala e le stesse relazioni sentimentali, talvolta dai caratteri fugaci altre volte sublimate nel tempo, sono un ritratto colorito di pensieri che lo logorano. Percorsi più pop estratti da diversi contesti ma con lo stesso occhio di riguardo per le sue correnti moderne, vengono impreziositi dalle diverse influenze dei vari produttori coinvolti che hanno creato il suo suono distintivo: cambiando spesso la fonte, il quadro generale si aggiunge di sempre nuove situazioni in cui l'artista adatta il suo stile. “Mentre Nessuno Guarda” ci regala inoltre alcuni dei momenti più a fuoco della sua carriera: “Demoni”, “Così Forte” e, per come impostata, “Scusa”, sono tracce che i suoi fan hanno già inciso nei propri pensieri. Collaborazioni di primissimo ordine sono la ciliegina su una torta già gustosa che, con tutta tranquillità, conferma Mecna uno dei più compiuti esempi di qualità al servizio del grande pubblico.
Le ansie, le emozioni, le sensazioni di un'intera generazione vengono raccontate nel vivace progetto musicale degli Psicologi, uno dei nomi che ha trovato la sua esposizione su larga scala mediatica proprio quest'anno. Per coloro che invece seguivano il duo già dallo scorso anno, la graduale affermazione di Lil Kaneki e Drast sorprende fino a un certo punto: chi aveva scommesso su di loro come la più pronta delle novità musicali ci aveva visto lungo, ma le ottime premesse iniziali viravano già verso questa direzione. Unendo le più svariate influenze, i due giovanissimi classe 2001 sono riusciti a creare un qualcosa che ristabilisse le gerarchie della nuova scena pop, una scena che deriva in buona sostanza dal linguaggio rap, che assorbe e talvolta integra quel linguaggio e che funziona perfettamente per il pubblico a cui è dedicato. Gli Psicologi sono il simbolo musicale che mancava per rappresentare tutta la Generazione Z, con richiami emo trap, cloud rap, alt-pop fino ad arrivare a stralci di rock, edm e hip-hop: tutto serve a creare la loro variegata ma concisa proposta musicale, esemplificata dal loro primo album “Millenium Bug”. Il marchio però va oltre la musica in sè e riesce a brillare in primis per la scelta delle liriche, in cui all'amore giovanile si affiancano squarci di strada molto crudi, riflessioni sociali, profonda introspezione, un forte valore dell'amicizia, i piccoli vizi e le abitudini che accomunano tutti i ragazzi della loro generazione. Dopo i due EP dello scorso anno si aprono a molte più strade musicali, frutto di una sacrosanta volontà di sperimentare e di non incatenarsi a un solo contesto: siamo sicuri che questo sia però solo l'inizio, dato che le storie e le idee dei due ragazzi hanno davvero tanto da regalare.
Tra gli episodi più sperimentali e stravaganti dell'anno troviamo anche l'universo parallelo di Pufuleti, un nome che i radar di pochi cultori avranno intercettato nei meandri della più sotterranea scena underground. Classificazioni di troppo restrittive non rendono bene l'istinto musicale primitivo del progetto e dell'intenzione generale. Nella teoria è un lavoro raffinato, nella pratica è dissonante, infernale, caratterizzato dall'assoluta decostruzione di molti basilari nessi logici linguistici. Una storia questa, che trova origine nelle intricate radici multiculturali dell'artista, cresciuto tra la Germania e la Sicilia: quest'ultima a volte per casualità si trova a essere uno degli ultimi appigli al mondo materiale, lontano da ingrovigliati processi mentali oscillanti tra il no-sense e l'ermetismo più assoluto. Questo strano sapore mediterraneo si scontra per di più con un suono tutt'altro che levigato, e quello che di base vorrebbe essere il linguaggio musicale di partenza, il rap, viene presto tradito per percorsi più avventati e di tanto meno concreti. Sembra proprio prendere il sopravvento la dimensione dei sogni che però, se non direttamente incubi, sono almeno molti confusi: i turbolenti accenni a una lontana realtà fisica si spengono nell'immaginazione di uno strano mondo naturale. Musicalmente ciò che vorrebbe in partenza essere un semplice lavoro di rilassanti produzioni lo-fi hip hop, cloud rap e boom bap si fa da subito angosciante, vivace e complesso. Una perla di rara fattura nel nostro mondo presettato, che ci aiuta a mettere in dubbio le nostre certezze, la nostra concezione di armonia, la nostra stessa serenità. Un horror psicologico in musica.
Ora dimenticatevi l'idea del politically correct, dei suoni di tendenza, del piacere al pubblico, di rap come succursale Unicef e del rapper che vuole essere compatito. Ora ritornate al fare questo genere per passione, alla padronanza del mezzo, alle barre, solo alle barre, ai sample, solo ai sample. Poco altro è servito al movimento Make Rap Great Again per scuotere dal profondo le certezze dell'hip-hop italiano più underground, troppo spesso scavato in una stagnante autoreferenzialità che perde di vista il divertimento del creare la rima più geniale. Sotto l'ambiguo personaggio di Gionni Gioielli, figura con alle spalle una ultradecennale carriera nell'ambiente underground, il marchio MRGA è stato consacrato in pochi anni come la più decisa risposta ad un'attitudine che tendeva i rapper ad esporsi sempre meno. Barre, sample sporchi e nessun particolare espediente tecnico, secondo l'influenza di movimenti americani assodati anch'essi negli ultimi anni: il 2020 per il gruppo è stato un anno fruttuoso, con gli svariati dischi pubblicati sotto la label omonima. Oltre che al lavoro collettivo di “Pray For Italy”, particolare rilievo hanno assunto due lavori formidabili che parlando strettamente di rap non hanno avuto rivali in Italia quest'anno: “Alta Moda” e “Make Money Like Wars” rispettivamente di Armani Doc e Rollz Rois, i due giovani emergenti milanesi che occhi attenti avranno già adocchiato come nomi rivelazioni dell'anno. Per un legame simbolico era difficile non citarli entrambi ma tra i due il leggero vantaggio di oggi è vinto dal secondo, una guerra totale. È qui che prendono forma tutti gli aggettivi impiegati finora con se possibile un'intensità ancora maggiore: autoproducendosi il disco, Rois non le manda a dire per nessuno, sparando a zero sulla qualsiasi. Un disco allucinante capace di riscoprire il lato più spietato del rap classico, che se per stessa natura non potrà mai arrivare a tutti, sarà comunque premiato a dovere dai pochi amanti dello stile. Imparate a memoria tutte le barre non perdono un minimo della loro pesantezza con incroci che si riversano nei soldi, nella strada, nelle donne, nella droghe, nel rap stesso e nella società intera di riflesso. Polemico, scorretto, micidiale eppure marcatamente classico.
Venuto fuori dal movimentato universo della scena underground romana, Tutti Fenomeni risulta qualcosa di destabilizzante in ogni contesto lo si inserisca. Partito con collaborazioni trap nei Tauro Boys, con lavori su SoundCloud sempre su quel filone lì, la svolta al pop d'avanguardia era solo il naturale proseguo degli eventi, con liriche disturbanti e la sua voce gelida, impenetrabile. A tratti di intensità funeraria, a tratti di estrosa malinconia, a tratti di semplice apatia e diffidenza per il genere umano, il corollario e il pacchetto musicale fatto di esagerazioni, divagazioni poetiche e citazionismo funziona quasi per miracolo. Non c'è troppa armonia, non tutto sembra essere al posto giusto ma il gioco vale la candela. È così che si presenta in “Merce Funebre” in cui tutto il suo estro artistico è reso in musica dall'ispirata mano di Niccolò Contessa, che oltre al suo lavoro con I Cani si cimenta nel creare la controparte musicale del progetto. Quest'ultima in parte riprende le idee dei Cani ma le trasforma sotto punti di vista differenti. Temi sacri, quasi funebri per l'appunto, si uniscono a una composizione in cui è preponderante l'influenza New Wave ed elettronica in generale. Un lavoro davvero incoraggiante per una figura che viaggia fuori dagli schemi artistici prestabiliti, un piccolo esempio di poesia decadente in musica.
Al suo tempo, “Savage Mode” fu un terremoto mediatico che spinse con grande insistenza i nomi di 21 Savage e Metroboomin tra le icone della scena americana: passano gli anni ma la situazione non cambia, con i due che hanno guadagnato parte della loro fama proprio a partire da quel disco. Sono passati solo alcuni anni, ma la strada percorsa da entrambi dopo quel capitolo è stata delle più fortunate, con Metro che si è trovato a lavorare in tutti i dischi più venduti degli ultimi anni e 21 che invece ha scoperto le sue potenzialità a livello lirico, evolvendosi nel tempo attraverso uno stile sempre più completo. Come nelle migliori favole, i due si sono rincontrati per creare un progetto ancora più ambizioso, che spiazzasse i fan dopo anni di assenza ma che riuscisse nel difficile compito di non seguire le tendenze. Ed ecco che arriva “Savage Mode 2” a ricordare com'è andata la storia. Un po' tutto il disco è infatti un profondo omaggio culturale che discosta l'attenzione dai numeri e dalle classifiche, per concentrarsi su un qualcosa che è autoreferenziale al genere. Si parla hip-hop e si parla d'hip-hop, gustando fino in fondo il suo linguaggio, ripercorrendo e onorando alcuni dei suoi tratti salienti con particolare attenzione al dirty sound di fine '90 e primi 2000, a cui il disco si ispira. L'ispirazione parte dall'anima prima che dal concreto componimento, perché frutto di un sincero ringraziamento a nome di un'intera generazione cresciuta con quei suoni, alla buon anima di Dj Screw, vero mentore spirituale del progetto, che dallo stile della copertina fino alla trattazione di alcune sonorità sembra quasi evitare lo stare al passo coi tempi nell'accezione più comune. Un disco significativo che riscrive il duo nei più aggiornati annali di questa cultura.
Dopo che le carriere dei due si erano incrociate nel fortunato progetto “Fetti”, i presupposti per creare l'ennesimo instant classic c'erano tutti, e anzi, sono andati ben oltre. Non tutti sapranno che in America la cucina italiana è spesso rappresentata tra le altre ricette dalla pasta Alfredo, fondamentalmente a base di burro e spezie varie: seppure in Italia non sia tanto diffusa, per i nostri amici americani è la più classica delle ricette della penisola. Ed è proprio dal classicismo insito di atmosfera noir che parte il nostro percorso per capire una delle gioie più intense del 2020. Un'ambientazione anche qui cinematografica ci accompagna nelle più classiche delle storie di strada, condita da momenti introspettivi come di assoluta ironia. Il tutto con una padronanza rap disumana: il buon Gibbs che raccoglie tanti nomi lungo il percorso è una macchina instancabile che guadagna tutta la sensibilità della più profonda musica black. Tecnica assoluta ma mai fine a sè stessa, perché al servizio di barre geniali che spiazzano l'ascoltatore e lo accompagnano nel mondo da gangsta movie di “Alfredo”. In ciò la mano dorata di The Alc, che con questo disco si conferma probabilmente tra i producer più in forma del momento, non fa fatica a capire le intenzioni liriche del rapper, con infiniti sample che si rincorrono, sample che sono il vero mordente emotivo da cui partono le varie idee in musica: a essi, quasi in eredità jazz, si incolla lo stesso Gibbs per scegliere per ogni episodio la strada giusta. I pochi ospiti coinvolti capiscono la portata del tutto e regalano strofe al meglio delle loro possibilità che amplificano un duo musicale in forma smagliante. E fidatevi che il tutto rasenta la perfezione. Sul serio.
Sull'onda di una crescente attenzione per il compianto personaggio di Pop Smoke, la corrente Uk Drill è arrivata al grande pubblico, e di riflesso, sempre più nomi hanno cavalcato lo stile: buona parte delle tendenze trap piú street si sono avvicinate al genere andando ben oltre i confini di Brooklyn. È un processo partito però già da tempo ma che ha trovato una solida base di ascoltatori solo in quest'ultimo anno, processo che paradossalmente ha coinvolto solo in parte Brooklyn e la Grande Mela dove Pop e affiliati hanno cambiato i giochi. Per la precisione oggi viaggiamo oltralpe, tornando nell'Europa che ha dato le vere fondamenta del genere con la scena drill britannica: la Francia però sembra aver preso particolarmente a cuore lo stile con una produzione quantitativa che quest'anno non ha rivali. La punta di diamante di un complesso ecosistema musicale è forse Freeze Corleone, nome più in vista del collettivo 667, un marchio che a qualcuno potrebbe già dire qualcosa: caratterizzati da una profonda riservatezza, i membri sono restii a collaborazioni esterne ai loro quartieri, trattano la loro cruda realtà con una forte attenzione alla teatralità della strada, rimangono da sempre coerenti al loro stile musicale che per questo sembra quasi non evolversi mai. Tornando a Freeze, non si esagera dicendo che “LMF” è un testamento neorealista del difficile tessuto periferico francese, raccontato con occhi lucidi, consapevoli ma in un certo senso orgogliosi. La pesantezza dei bassi, delle evocative atmosfere glaciali portano al definitivo compimento del sapere drill, integrato dai testi e dalla street credibiliy che passa tutt'altro che in secondo piano. Una doccia gelida che mette i brividi e che dimostra la Francia come la più ispirata realtà europea del genere.
A campione di una fiorente scena alternative R&B parliamo di uno dei nomi che pian piano sta trovando il suo spazio nel mondo dei grandi. Non sappiamo quanto per Giveon la collaborazione con Drake nella hit “Chicago Freestyle” pubblicata quest'anno sia stato fondamentale per ricarburare idee, crearsi nuove aspirazioni e confrontarsi con un pubblico più ampio, ma certo è che a livello numerico poche potevano essere le alternative tanto espositive. Eppure il giovane californiano non ha la voracità di chi cerca la fama a ogni costo, sembrando apprezzare maggiormente respirare a pieni polmoni nel suo mondo. E il suo mondo è a dir poco brillante, a tratti minimale ma mai caotico. Anche il suo disco rilasciato quest'anno “Take Time” non si scompone mai particolarmente e fa della raffinatezza la sua cifra stilistica. Pace vuole comunicare e pace ci consegna, con inclusa una semplice ma profonda disamina dei sentimenti e delle relazioni. La vera protagonista è però la voce del cantante che si unisce a una carrellata di suoni delicati: con grande eleganza emergono ritorsioni black. A conti fatti però non è un lavoro riservato a pochi, mostrandosi anzi con un linguaggio intellegibile anche da un ipotetico grande pubblico. Che stiate cercando un qualcosa per rilassarvi, per concentrarvi, per evadere, “Take Time” è il prodotto che fa per voi.
Uno dei nomi che abbiamo imparato a conoscere per le innumerevoli collaborazioni con i pesi massimi della scena, quest'anno ha aggiunto alla sua prolifica carriera un importante tassello, un disco che per stessa indole lo posiziona finalmente tra i colleghi che per anni ha solamente sostenuto. Dopo il joint album con Lil Baby pubblicato lo scorso anno intitolato “Drip Harder”, Gunna ha infatti raccolto tutte le energie per dare forma al suo biglietto da visita più importante. Si parla di “Wunna” come il più consapevole dei suoi lavori, che tuttavia avevano già il loro fascino: qui però Gunna fa il salto di qualità, da semplice aggregatore di hit a ideatore di una determinata visione. Il gusto musicale si sposta verso territori sempre più puliti, con il sacro senso d'equilibrio che è la vera chiave del suo viaggio. Un'estrema pulizia sonora di contro ai testi che restano i più canonici della trap, dai quali non ha nessun interesse a distaccarsi perché sa che sono altri gli elementi su cui puntare all'interno del disco: la voce è un vero e proprio strumento aggiuntivo che Gunna usa per sviluppare un accorato lavoro di timbri, dal sussurrato al più aperto. A questo aggiunge un consapevole uso dell'autotune e della cosiddetta baby voice, che fa spesso da sfondo alle linee melodiche. Magistrale è anche il lavoro musicale, tra i più riusciti dell'anno, con alcuni dei nomi di massimo rilievo in forma smagliante, tra i quali spicca un ispiratissimo Wheezy, già da tempo fedele del percorso Gunna. “Wunna” fa il punto della situazione sui suoni più di tendenza e lo fa con gran classe.
Dando uno sguardo invece a ciò che sta succedendo nella scena femminile, realtà in continuo fermento che non ha paura di prendersi importanti eredità, uno dei ritorni più apprezzati dell'anno è rappresentato sicuramente da quello di Kehlani, che prosegue quanto di buono aveva creato in “While We Wait” e precedenti: una voce fuori dal coro innanzitutto per la sua prorompenza. A far capo alle più fresche idee musicali della corrente, troviamo una personalità tagliente, a cui non piace seguire le regole quanto vedere fino a che punto arrivare prima di crearne di nuove. Padrona dei più moderni idiomi del Soul e R&B, Kehlani riprende da un gusto vintage un certo sentimento passionale che espande ad ogni tipo di relazione: partendo da sé stessa riesce a investire la realtà che la circonda con un linguaggio a volte colorito ma che non perde mai le sue buone intenzioni. Anche da quel punto di vista riesce a liberarsi di ogni convenzione per esporre ogni sua fragilità come anche ogni lato ironico, non perdendosi mai in troppi giri di parole. Ciò che domina il tutto è assolutamente la brillantezza vocale, capace di ambientarsi a perizie tecniche di assoluto spessore. Ad accompagnarla in questo viaggio alcuni ospiti di grande levatura: da Masego a James Blake, da Jhenè Aikò a Lucky Daye, che modulano con altrettanto bravura nelle proprie aree di competenza. Stupendo racconto quotidiano con momenti davvero memorabili.
Cercando in continuazione naturali conseguenze di fenomeni musicali sviluppati nel tempo, ci piace pensare che Moses Sumney sia l'anello di congiunzione tra la storia della musica afro in America e le più complesse energie elettroniche dei nostri tempi. “græ” è la sua opera seconda che, dopo l'eclettica visione di “aromanticism”, porta ancora una volta avanti il suo perchè artistico: pubblicato in due parti, sarebbe facile perdersi nelle affollate strade che compongono le influenze dell'album. Energie ben diverse sono quelle incanalate nella sua multiculturale esperienza che raccoglie elementi di tradizione operistica, sfumature africane immortalate in un prestante tecnicismo, anche qui di richiamo jazzistico. Ci troviamo di fronte a un complesso assioma musicale con cui, anche alla fine della fiera, è difficile fare i conti. Una voce dorata fa i salti mortali per farsi trovare pronta a ogni intenzione, a ogni intensità, a ogni timbro, per coronare un barocco metodo compositivo che, pur perdendosi in tanti orpelli, trova sempre modo di tornare a casa. Non ci sono certamente scorciatoie in questo sensazionale viaggio spirituale, che si avvicina alle più sacre dimensioni del gospel per tramandare emozioni eterne. Merito anche della produzione illuminata di nomi del calibro di FKJ, Adult Jazz e Oneothrix Point Never, alcuni tra i nomi più caldi della scena internazionale. Ricapitolando, una perla rara che va recuperata a ogni costo che racchiude quanto di buono la musica black abbia edificato in questi ultimi anni.
“The Punisher” è un capolavoro. E sì, alcuni non sapranno di cosa stiamo parlando, ma partiamo proprio da questo presupposto: “The Punisher” è un capolavoro. Ha l'aria di esserlo, ha l'essenza giusta, ha la caratura artistica più intensa dell'anno. Il tutto è merito della ventiseienne Phoebe Bridgers, che modella la musica e la sua storicità a proprio piacimento: da echi shoegaze anni '90 al più malandato dei dischi indie rock, dall'apertura ambient all'intimismo folk. E l'acclamazione generale della critica arriva fino a un certo punto: molto prima arriva l'incredibile lavoro compositivo dell'album che a momenti di estrema quanto semplice empatia affianca richiami d'avanguardia. Dolcezza struggente e folle malinconia si risolvono nel caldo che avvolge, travolge, imbarazza l'ascoltatore. Un intimo rituale si va via via levando nella notte inseguita lungo tutto il disco in cui Bridgers cerca sé stessa, e con un incredibile gioco di ruoli, ci insegna qualcosa di noi. Un percorso lento che non ha paura di prendersi il suo tempo che però pian piano incanala il coraggio emotivo in un coraggio molto più fisico, focoso: improvvisi stacchi sinfonici accompagnano note di chitarra strozzate in un turbine sentimentale prima, in silenziose grida a sé stessa poi. Con la giusta predisposizione all'ascolto sarà facile cadere nei poetici rivolti di queste ballate. Lo strascico meno black di questa selezione diventa a sorpresa il vero gioiello dell'anno. Arte d'altri tempi.
Con la sua aria da genio tuttofare, Thundercat è uno degli ultimi sopravvissuti alla rivoluzione industriale della musica, vivendo in un mondo incantato di cui a noi non restano che le briciole. Venuto alla ribalta grazie a importanti unioni con nomi di prim'ordine come Childish Gambino, punto di non ritorno per capire l'evoluzione del jet set musicale, e Kamasi Washington, genio visionario del jazz contemporaneo, fino alla più preziosa con Kendrick Lamar raccolta all'interno dell'anthem “To Pimp A Butterfly”, solo poco tempo fa l'artista Losangelino usciva con un capolavoro come “Drunk”, che ha finalmente inquadrato un personaggio difficile da schematizzare. Il suo viaggio è proseguito fino a quest'anno, quando, raccolte le forze, rimette in piedi in un'altra opera decenni di evoluzione musicale degli ambiti più disparati: “It Is What It Is” è un caos multitematico che cerca freneticamente sempre qualcosa di nuovo da occupare. Rende punk acuti coretti soul, rende funk caotici excursus elettronici, rende pura new wave amalgama di intimi approcci vocali, rende il jazz maleducato, disorientante, istantaneo, in rapido cambiamento: la ridotta durata delle tracce lo sottolinea meno del suo contenuto. Ed è tutto dire. Sballottatati da un capo all'altro da complesse composizioni che diventano improvvisamente pop, si fa fatica a trovare punti di riferimento, con liriche che giocano spesso su una sentita emotività e una dissacrante ironia. Un trip delirante, innovativo, avanguardistico che con lo scorrere dei minuti sembra dimezzare gradualmente i bpm, rallentarsi, per farci derivare ancora di più dalla triste realtà di tutti i giorni. Estraniante.
Il più emblematico e ambizioso progetto prodotto quest'anno dal collettivo Griselda crea arte dall'arte: l'eccentrica personalità di Westside Gunn questa volta si è superata per dare vita al culto definitivo, la somma di dozzine di progetti in pochissimi anni. Il trio di Buffalo ha dato nuova linfa a una scena hip-hop underground chiusa nei suoi confini, rubando il capitalismo più sfrenato della trap pagato con il costo della strada: griffes ovunque amplificano il loro messaggio spregiudicato, un messaggio che ha presto garantito i favori dei più grandi nomi della scena prima che del pubblico. Un fervore interno del settore che in questi casi indica che qualcosa, effettivamente, sta succedendo. E se Conway e Benny uniscono lo stile a un'attenzione formale perfetta, il più eclettico Westside Gunn porta alle estreme conseguenze l'idea prestabilita. La sua voce stridente, acuta, piena di stonature, s'incollerà alle vostre orecchie, sarà difficile da digerire e, alla lunga, quasi da sopportare. È il prezzo da pagare per godere di una delle esperienze artistiche più geniali che il genere abbia regalato negli ultimi anni: è così anche per “Pray For Paris” per come si presenta, per come è composto, per come fa il punto della situazione. Non sappiamo mai bene se pensare alla cura maniacale o a un'istintiva genialità, ma sta di fatto che West è pronto a sovvertire le regole, ad essere un personaggio scomodo, un personaggio che sembra rinchiudersi nel suo mondo artistico che apre solo a pochi eletti. E se dietro al microfono passano leggende immortali come le proposte più sperimentali della scena, dietro le macchine la formula e il personale restano serrate: i sample “senza batteria”, scarni ma internamente ricchi erano e rimangono il vero fondamento dello stile Griselda. E qui c'è tutto questo ma c'è anche altro: c'è la sana follia di chi rispetta gli standard solo dopo averli ricreati. “Pray For Paris” è il vero monumento hip-hop di quest'anno, da recuperare obbligatoriamente.
ITALIA
Bnkr44 - “44.DELUXE”
È ormai assodato che la migliore musica delle nuove generazioni cerchi sempre più di sfuggire dalle anacronistiche etichette dei generi, divenute reclusive: capaci di isolare ciò che gli interessa dalle singoli correnti, i risultati sono spesso i personali riassunti artistici. In questa direzione, nel loro piccolo, sembrano procedere anche i ragazzi della Bnkr44, un vasto ed eterogeneo collettivo spuntato fuori dall'entroterra toscano, un gruppo che passo dopo passo ha inglobato vari nomi di giovani pronti a dire la propria. Le radici diverse dei ragazzi portano a “44.DELUXE” un quadro di idee contrastanti, dipinto di colori quasi plumbei ma non per questo meno vivaci: le proposte musicali, con influenze raccolte dai linguaggi del rap e del pop più sperimentale con un'impronta Garage/Lo-Fi, creano esperienze molto diverse tra di loro. Melodie sognanti verso i territori del dream pop, dell'alt-rock dall'estetica retrò, si scontrano contro furiose rappate su beat trap no melody, con i vari nomi che aggiungono il loro stile, in alcuni casi precisamente inquadrato ai contesti che lo richiedono. Una ricerca musicale quasi intuitiva, che risultando particolarmente brillante, rivela sonorità che in Italia si sentono di rado. I singoli trovano spazio per emergere, ma sul momento, a colpire è proprio la continua instabilità e i costanti cambiamenti di forma: bevute in compagnia, piccole feste tra amici, nottate dietro i monitor in studio e semplici scambi empatici sono la formula della mina innescata dalla Bnkr44. Consiglio spassionato: teneteli d'occhio.
Bresh - “Che Io Mi Aiuti”
In un anno in cui l’unità di alcune scene è stata talvolta messa in discussione, Genova si è dimostrata un punto di assoluto rilievo nella mappa del rap italiano. Sarà l'aria di mare e le tradizioni che gli girano attorno, ma la poesia espressa dai ragazzi liguri è tornata al massimo del suo splendore in un anno assolutamente prolifico per tutto ciò che concerne Drilliguria, Wildbandana e affiliati. Tra i nomi da citare troviamo sicuramente quello di Bresh, che per la prima volta con “Che Io Mi Aiuti” è riuscito a portare la sua singolare espressività a un pubblico sempre più allargato: tra squarci poetici e interessanti trovate melodiche tutto passa sotto la sua assoluta personalità, il jolly del disco. Una lente che ci permette di comprendere quanto il discorso narrativo intrapreso da Bresh rimanga libero ma fermo su alcune posizioni. Non solo non sembra subire particolarmente il peso di influenze esterne, ma anzi, a tratti sembra respingerle: nelle infinite aspirazioni del mare e dei vicoli genovesi racconta con grande cura di forma e senso di modernità la sua realtà, le sue relazioni, le sue ispirazioni, le sue riflessioni e se stesso in generale. Nel microcosmo marittimo sembra attingere tutto ciò che ha da dire e a cui ha da riferirsi, con un concetto, quella di freschezza, che è difficile non banalizzare se si cerca di esprimerne la sostanza. Ci possiamo girare attorno quanto vogliamo, ma ciò che stupisce di questo disco è quanto sia inaspettatamente fresco: si abbandonano per tutta la durata le convenzioni stereotipate legate al genere per salvarne le più essenziali, padroneggiando il mezzo ma riscoprendolo secondo il suo modo d'intendere. Un'esperienza a tratti esotica e che anche nei molti momenti di intimità nasconde un profondo senso di passione, quasi un calore che si fa vivo. Tutto ben fatto.
CoCo - “Floridiana”
Abbiamo già speso parole rassicuranti circa l'ultima opera di CoCo, una voce dall'animo internazionale che si espande nelle formule più ispirate della scena musicale. Anche in “Floridiana” il rapper partenopeo è pronto a intercettare nuovi accenti da più influssi, a dissacrare la tipica immagine del genere e ad aprirsi in campi in cui si sente a proprio agio. Dietro lo stesso linguaggio che rimane centrale nell'economia dei suoi prodotti, il rap, si celano gli elementi più discorsivi, più legati al vissuto concreto dell'artista che riesce con disinvoltura a rendere alleggeriti intensi passaggi personali. La dimensione dei ricordi è particolarmente sviscerata su più piani, con una malinconia di fondo che l'accompagna e che crea il pretesto per un'analisi interiore: a volta nascosta tra le righe, questa è la prova tangibile che CoCo scriva quasi egoisticamente per se stesso. Da questo nasce anche la linea che separa la parte propriamente rap da quella più melodica, incentivata sempre ad affrontare nuove sfide. L'equilibrio vocale che di riflesso si viene a creare e che pesca dagli ambienti più raffinati della musica moderna, è sempre più pronto ad aprirsi a nuovi mondi. Il tutto è racchiuso in una fresca proposta musicale, attenta anche qui alla scena internazionale: assaporate le più moderne soluzioni R&B, non ci resta che gustare tutto ciò che “Floridiana” ha da offrirci. Un CoCo in gran forma, come al solito.
Frah Quintale - "Banzai (Lato Blu)"
L'effetto estraniante contro la sensazione di quiete, la sottile irriverenza lirica contro la più ispirata gamma melodica fanno di Frah Quintale la più importante voce black di tutto il nostro panorama: nessuno come lui in questo momento riesce a padroneggiare il linguaggio erudito dell'R&B e a iniettarlo in un più generalista, ma non per questo meno rispettabile, ambiente alternativo del pop italiano. Perchè le occasioni propriamente pop, nell'accezione più italiana del termine, sono limitate al minimo, puntando sulle correnti americane ed europee più fresche del genere. Frah Quintale in "Banzai (Lato Blu)" riesce quindi nell'impresa di rendere accessibile un linguaggio che nella forma risulta essere per certi versi di nicchia: sonorità affrontate per esempio in “Buio Di Giorno”, “Lambada” sono totalmente estranee al nostro ambiente. Il tutto è reso possibile da una lucida e atmosferica produzione musicale sottolineata a suon di corali giochi analogici, sample e composizioni. Tornando a Frah, va rimarcato quanto il linguaggio del rap si dimostri di fondamentale influenza per la stesura: pur tradendo del tutto la forma, il disco riesce a suonare perfettamente hip-hop negli scorci urbani, nella leggerezza sentimentale e nella sincera introspezione personale. Insomma, questo disco dimostra come con un linguaggio trasversale, interpretabile e da godere a più livelli, si possa far arrivare senza particolari compromessi un mondo musicalmente selettivo. Aspettando il secondo lato, "Banzai (Lato Blu)" resta forse il più riuscito tentativo di rinnovamento del pop italiano di quest'anno. Una piccola benedizione.
Generic Animal - “Presto”
In silenzio, quasi chiedendo permesso, appena entrati nel mondo di Generic Animal ci troviamo spiazzati da un'atmosfera di intimità fuori dai suoi termini più comuni, un universo parallelo, dai tratti provinciali ma slegati dal contesto urbano, in cui le priorità sembrano essere le piccolezze del nostro mondo. Minutissime stilizzazioni ci offrono rapidi assaggi di semplici situazioni rese drammatiche dalla voce spesso straziata, voce che si sviluppa su diversi registri. Così facendo, attraverso un codice particolare, reinventa a suo modo una profonda emotività che si insidia prima nei testi e poi, in maniera se possibile ancora più dirompente, nel lato musicale. In questo ambiente in cui potremmo comprendere le stesse linee vocali, ci sono i richiami ai mondi dell'emo rock, del grunge, della scena alternative, il tutto impacchettato con una moderna rielaborazione. “Presto” è la tanta attesa risoluzione del personaggio Generic Animal, una figura che il grande pubblico avrà già sentito nei panni di strumentista per pezzi di culto della nuova scena italiana: “Rehab” di Ketama126, di cui in “Fresco” troviamo il compagno Lovegang Franco126, come “Sabbie D'Oro” di Massimo Pericolo, che troviamo anche qui in “Scherzo”. Dentro anche Nicolaj Serjotti, affiliato del roaster Tempesta Dischi che conserva la sua rilevanza nel mercato indipendente italiano. Squarci surreali ci fanno perdere o riacquisire il contatto con una realtà, forse un po' deludente, ma che almeno sa ancora regalarci qualcosa di diverso. E “Presto” è qualcosa di diverso, da ascoltare anche il prima possibile: compagno memorabile di quarantena il cui mood generale sembrava cucito appositamente per quei momenti. Assolutamente da ripescare.
Mecna - “Mentre Nessuno Guarda”
Tutto ciò che di buono c'è da aspettarsi da un disco di Mecna è presente anche nel suo ultimo album, ormai il quinto della sua carriera. Superata la parentesi con Sick Luke, il rapper pugliese, dopo aver definitivamente consegnato il suo personaggio musicale a un pubblico sempre più trasversale, torna sui propri passi. Verrebbe da dire che per la continuità che cerca di costruire con il suo percorso, anche questo disco risulta essere frutto di una tutt'altro che inaspettata innovazione: le etichette non contengono più la personalità poliedrica di un Mecna in costante ricerca di stimoli, sensoriali, emotivi, lirici o musicali che siano. Questo si scontra con la sua forte emotività che se in alcuni momenti sembra completamente spogliarsi della sua riservatezza, in altri, a partire dalla stessa copertina, la sottolineano attentamente. Diverse sono le strade in cui questa emotività si incanala e le stesse relazioni sentimentali, talvolta dai caratteri fugaci altre volte sublimate nel tempo, sono un ritratto colorito di pensieri che lo logorano. Percorsi più pop estratti da diversi contesti ma con lo stesso occhio di riguardo per le sue correnti moderne, vengono impreziositi dalle diverse influenze dei vari produttori coinvolti che hanno creato il suo suono distintivo: cambiando spesso la fonte, il quadro generale si aggiunge di sempre nuove situazioni in cui l'artista adatta il suo stile. “Mentre Nessuno Guarda” ci regala inoltre alcuni dei momenti più a fuoco della sua carriera: “Demoni”, “Così Forte” e, per come impostata, “Scusa”, sono tracce che i suoi fan hanno già inciso nei propri pensieri. Collaborazioni di primissimo ordine sono la ciliegina su una torta già gustosa che, con tutta tranquillità, conferma Mecna uno dei più compiuti esempi di qualità al servizio del grande pubblico.
Psicologi - “Millenium Bug”
Le ansie, le emozioni, le sensazioni di un'intera generazione vengono raccontate nel vivace progetto musicale degli Psicologi, uno dei nomi che ha trovato la sua esposizione su larga scala mediatica proprio quest'anno. Per coloro che invece seguivano il duo già dallo scorso anno, la graduale affermazione di Lil Kaneki e Drast sorprende fino a un certo punto: chi aveva scommesso su di loro come la più pronta delle novità musicali ci aveva visto lungo, ma le ottime premesse iniziali viravano già verso questa direzione. Unendo le più svariate influenze, i due giovanissimi classe 2001 sono riusciti a creare un qualcosa che ristabilisse le gerarchie della nuova scena pop, una scena che deriva in buona sostanza dal linguaggio rap, che assorbe e talvolta integra quel linguaggio e che funziona perfettamente per il pubblico a cui è dedicato. Gli Psicologi sono il simbolo musicale che mancava per rappresentare tutta la Generazione Z, con richiami emo trap, cloud rap, alt-pop fino ad arrivare a stralci di rock, edm e hip-hop: tutto serve a creare la loro variegata ma concisa proposta musicale, esemplificata dal loro primo album “Millenium Bug”. Il marchio però va oltre la musica in sè e riesce a brillare in primis per la scelta delle liriche, in cui all'amore giovanile si affiancano squarci di strada molto crudi, riflessioni sociali, profonda introspezione, un forte valore dell'amicizia, i piccoli vizi e le abitudini che accomunano tutti i ragazzi della loro generazione. Dopo i due EP dello scorso anno si aprono a molte più strade musicali, frutto di una sacrosanta volontà di sperimentare e di non incatenarsi a un solo contesto: siamo sicuri che questo sia però solo l'inizio, dato che le storie e le idee dei due ragazzi hanno davvero tanto da regalare.
Pufuleti - “Catarsi Aiwa Maxibon”
Tra gli episodi più sperimentali e stravaganti dell'anno troviamo anche l'universo parallelo di Pufuleti, un nome che i radar di pochi cultori avranno intercettato nei meandri della più sotterranea scena underground. Classificazioni di troppo restrittive non rendono bene l'istinto musicale primitivo del progetto e dell'intenzione generale. Nella teoria è un lavoro raffinato, nella pratica è dissonante, infernale, caratterizzato dall'assoluta decostruzione di molti basilari nessi logici linguistici. Una storia questa, che trova origine nelle intricate radici multiculturali dell'artista, cresciuto tra la Germania e la Sicilia: quest'ultima a volte per casualità si trova a essere uno degli ultimi appigli al mondo materiale, lontano da ingrovigliati processi mentali oscillanti tra il no-sense e l'ermetismo più assoluto. Questo strano sapore mediterraneo si scontra per di più con un suono tutt'altro che levigato, e quello che di base vorrebbe essere il linguaggio musicale di partenza, il rap, viene presto tradito per percorsi più avventati e di tanto meno concreti. Sembra proprio prendere il sopravvento la dimensione dei sogni che però, se non direttamente incubi, sono almeno molti confusi: i turbolenti accenni a una lontana realtà fisica si spengono nell'immaginazione di uno strano mondo naturale. Musicalmente ciò che vorrebbe in partenza essere un semplice lavoro di rilassanti produzioni lo-fi hip hop, cloud rap e boom bap si fa da subito angosciante, vivace e complesso. Una perla di rara fattura nel nostro mondo presettato, che ci aiuta a mettere in dubbio le nostre certezze, la nostra concezione di armonia, la nostra stessa serenità. Un horror psicologico in musica.
Rollz Rois - “Make Money Like Wars”
Ora dimenticatevi l'idea del politically correct, dei suoni di tendenza, del piacere al pubblico, di rap come succursale Unicef e del rapper che vuole essere compatito. Ora ritornate al fare questo genere per passione, alla padronanza del mezzo, alle barre, solo alle barre, ai sample, solo ai sample. Poco altro è servito al movimento Make Rap Great Again per scuotere dal profondo le certezze dell'hip-hop italiano più underground, troppo spesso scavato in una stagnante autoreferenzialità che perde di vista il divertimento del creare la rima più geniale. Sotto l'ambiguo personaggio di Gionni Gioielli, figura con alle spalle una ultradecennale carriera nell'ambiente underground, il marchio MRGA è stato consacrato in pochi anni come la più decisa risposta ad un'attitudine che tendeva i rapper ad esporsi sempre meno. Barre, sample sporchi e nessun particolare espediente tecnico, secondo l'influenza di movimenti americani assodati anch'essi negli ultimi anni: il 2020 per il gruppo è stato un anno fruttuoso, con gli svariati dischi pubblicati sotto la label omonima. Oltre che al lavoro collettivo di “Pray For Italy”, particolare rilievo hanno assunto due lavori formidabili che parlando strettamente di rap non hanno avuto rivali in Italia quest'anno: “Alta Moda” e “Make Money Like Wars” rispettivamente di Armani Doc e Rollz Rois, i due giovani emergenti milanesi che occhi attenti avranno già adocchiato come nomi rivelazioni dell'anno. Per un legame simbolico era difficile non citarli entrambi ma tra i due il leggero vantaggio di oggi è vinto dal secondo, una guerra totale. È qui che prendono forma tutti gli aggettivi impiegati finora con se possibile un'intensità ancora maggiore: autoproducendosi il disco, Rois non le manda a dire per nessuno, sparando a zero sulla qualsiasi. Un disco allucinante capace di riscoprire il lato più spietato del rap classico, che se per stessa natura non potrà mai arrivare a tutti, sarà comunque premiato a dovere dai pochi amanti dello stile. Imparate a memoria tutte le barre non perdono un minimo della loro pesantezza con incroci che si riversano nei soldi, nella strada, nelle donne, nella droghe, nel rap stesso e nella società intera di riflesso. Polemico, scorretto, micidiale eppure marcatamente classico.
Tutti Fenomeni - “Merce Funebre”
Venuto fuori dal movimentato universo della scena underground romana, Tutti Fenomeni risulta qualcosa di destabilizzante in ogni contesto lo si inserisca. Partito con collaborazioni trap nei Tauro Boys, con lavori su SoundCloud sempre su quel filone lì, la svolta al pop d'avanguardia era solo il naturale proseguo degli eventi, con liriche disturbanti e la sua voce gelida, impenetrabile. A tratti di intensità funeraria, a tratti di estrosa malinconia, a tratti di semplice apatia e diffidenza per il genere umano, il corollario e il pacchetto musicale fatto di esagerazioni, divagazioni poetiche e citazionismo funziona quasi per miracolo. Non c'è troppa armonia, non tutto sembra essere al posto giusto ma il gioco vale la candela. È così che si presenta in “Merce Funebre” in cui tutto il suo estro artistico è reso in musica dall'ispirata mano di Niccolò Contessa, che oltre al suo lavoro con I Cani si cimenta nel creare la controparte musicale del progetto. Quest'ultima in parte riprende le idee dei Cani ma le trasforma sotto punti di vista differenti. Temi sacri, quasi funebri per l'appunto, si uniscono a una composizione in cui è preponderante l'influenza New Wave ed elettronica in generale. Un lavoro davvero incoraggiante per una figura che viaggia fuori dagli schemi artistici prestabiliti, un piccolo esempio di poesia decadente in musica.
DAL MONDO
21 Savage & Metroboomin - “Savage Mode 2”
Al suo tempo, “Savage Mode” fu un terremoto mediatico che spinse con grande insistenza i nomi di 21 Savage e Metroboomin tra le icone della scena americana: passano gli anni ma la situazione non cambia, con i due che hanno guadagnato parte della loro fama proprio a partire da quel disco. Sono passati solo alcuni anni, ma la strada percorsa da entrambi dopo quel capitolo è stata delle più fortunate, con Metro che si è trovato a lavorare in tutti i dischi più venduti degli ultimi anni e 21 che invece ha scoperto le sue potenzialità a livello lirico, evolvendosi nel tempo attraverso uno stile sempre più completo. Come nelle migliori favole, i due si sono rincontrati per creare un progetto ancora più ambizioso, che spiazzasse i fan dopo anni di assenza ma che riuscisse nel difficile compito di non seguire le tendenze. Ed ecco che arriva “Savage Mode 2” a ricordare com'è andata la storia. Un po' tutto il disco è infatti un profondo omaggio culturale che discosta l'attenzione dai numeri e dalle classifiche, per concentrarsi su un qualcosa che è autoreferenziale al genere. Si parla hip-hop e si parla d'hip-hop, gustando fino in fondo il suo linguaggio, ripercorrendo e onorando alcuni dei suoi tratti salienti con particolare attenzione al dirty sound di fine '90 e primi 2000, a cui il disco si ispira. L'ispirazione parte dall'anima prima che dal concreto componimento, perché frutto di un sincero ringraziamento a nome di un'intera generazione cresciuta con quei suoni, alla buon anima di Dj Screw, vero mentore spirituale del progetto, che dallo stile della copertina fino alla trattazione di alcune sonorità sembra quasi evitare lo stare al passo coi tempi nell'accezione più comune. Un disco significativo che riscrive il duo nei più aggiornati annali di questa cultura.
Freddie Gibbs & The Alchemist - “Alfredo”
Dopo che le carriere dei due si erano incrociate nel fortunato progetto “Fetti”, i presupposti per creare l'ennesimo instant classic c'erano tutti, e anzi, sono andati ben oltre. Non tutti sapranno che in America la cucina italiana è spesso rappresentata tra le altre ricette dalla pasta Alfredo, fondamentalmente a base di burro e spezie varie: seppure in Italia non sia tanto diffusa, per i nostri amici americani è la più classica delle ricette della penisola. Ed è proprio dal classicismo insito di atmosfera noir che parte il nostro percorso per capire una delle gioie più intense del 2020. Un'ambientazione anche qui cinematografica ci accompagna nelle più classiche delle storie di strada, condita da momenti introspettivi come di assoluta ironia. Il tutto con una padronanza rap disumana: il buon Gibbs che raccoglie tanti nomi lungo il percorso è una macchina instancabile che guadagna tutta la sensibilità della più profonda musica black. Tecnica assoluta ma mai fine a sè stessa, perché al servizio di barre geniali che spiazzano l'ascoltatore e lo accompagnano nel mondo da gangsta movie di “Alfredo”. In ciò la mano dorata di The Alc, che con questo disco si conferma probabilmente tra i producer più in forma del momento, non fa fatica a capire le intenzioni liriche del rapper, con infiniti sample che si rincorrono, sample che sono il vero mordente emotivo da cui partono le varie idee in musica: a essi, quasi in eredità jazz, si incolla lo stesso Gibbs per scegliere per ogni episodio la strada giusta. I pochi ospiti coinvolti capiscono la portata del tutto e regalano strofe al meglio delle loro possibilità che amplificano un duo musicale in forma smagliante. E fidatevi che il tutto rasenta la perfezione. Sul serio.
Freeze Corleone - LMF
Sull'onda di una crescente attenzione per il compianto personaggio di Pop Smoke, la corrente Uk Drill è arrivata al grande pubblico, e di riflesso, sempre più nomi hanno cavalcato lo stile: buona parte delle tendenze trap piú street si sono avvicinate al genere andando ben oltre i confini di Brooklyn. È un processo partito però già da tempo ma che ha trovato una solida base di ascoltatori solo in quest'ultimo anno, processo che paradossalmente ha coinvolto solo in parte Brooklyn e la Grande Mela dove Pop e affiliati hanno cambiato i giochi. Per la precisione oggi viaggiamo oltralpe, tornando nell'Europa che ha dato le vere fondamenta del genere con la scena drill britannica: la Francia però sembra aver preso particolarmente a cuore lo stile con una produzione quantitativa che quest'anno non ha rivali. La punta di diamante di un complesso ecosistema musicale è forse Freeze Corleone, nome più in vista del collettivo 667, un marchio che a qualcuno potrebbe già dire qualcosa: caratterizzati da una profonda riservatezza, i membri sono restii a collaborazioni esterne ai loro quartieri, trattano la loro cruda realtà con una forte attenzione alla teatralità della strada, rimangono da sempre coerenti al loro stile musicale che per questo sembra quasi non evolversi mai. Tornando a Freeze, non si esagera dicendo che “LMF” è un testamento neorealista del difficile tessuto periferico francese, raccontato con occhi lucidi, consapevoli ma in un certo senso orgogliosi. La pesantezza dei bassi, delle evocative atmosfere glaciali portano al definitivo compimento del sapere drill, integrato dai testi e dalla street credibiliy che passa tutt'altro che in secondo piano. Una doccia gelida che mette i brividi e che dimostra la Francia come la più ispirata realtà europea del genere.
Giveon - “Take Time”
A campione di una fiorente scena alternative R&B parliamo di uno dei nomi che pian piano sta trovando il suo spazio nel mondo dei grandi. Non sappiamo quanto per Giveon la collaborazione con Drake nella hit “Chicago Freestyle” pubblicata quest'anno sia stato fondamentale per ricarburare idee, crearsi nuove aspirazioni e confrontarsi con un pubblico più ampio, ma certo è che a livello numerico poche potevano essere le alternative tanto espositive. Eppure il giovane californiano non ha la voracità di chi cerca la fama a ogni costo, sembrando apprezzare maggiormente respirare a pieni polmoni nel suo mondo. E il suo mondo è a dir poco brillante, a tratti minimale ma mai caotico. Anche il suo disco rilasciato quest'anno “Take Time” non si scompone mai particolarmente e fa della raffinatezza la sua cifra stilistica. Pace vuole comunicare e pace ci consegna, con inclusa una semplice ma profonda disamina dei sentimenti e delle relazioni. La vera protagonista è però la voce del cantante che si unisce a una carrellata di suoni delicati: con grande eleganza emergono ritorsioni black. A conti fatti però non è un lavoro riservato a pochi, mostrandosi anzi con un linguaggio intellegibile anche da un ipotetico grande pubblico. Che stiate cercando un qualcosa per rilassarvi, per concentrarvi, per evadere, “Take Time” è il prodotto che fa per voi.
Gunna - “Wunna”
Uno dei nomi che abbiamo imparato a conoscere per le innumerevoli collaborazioni con i pesi massimi della scena, quest'anno ha aggiunto alla sua prolifica carriera un importante tassello, un disco che per stessa indole lo posiziona finalmente tra i colleghi che per anni ha solamente sostenuto. Dopo il joint album con Lil Baby pubblicato lo scorso anno intitolato “Drip Harder”, Gunna ha infatti raccolto tutte le energie per dare forma al suo biglietto da visita più importante. Si parla di “Wunna” come il più consapevole dei suoi lavori, che tuttavia avevano già il loro fascino: qui però Gunna fa il salto di qualità, da semplice aggregatore di hit a ideatore di una determinata visione. Il gusto musicale si sposta verso territori sempre più puliti, con il sacro senso d'equilibrio che è la vera chiave del suo viaggio. Un'estrema pulizia sonora di contro ai testi che restano i più canonici della trap, dai quali non ha nessun interesse a distaccarsi perché sa che sono altri gli elementi su cui puntare all'interno del disco: la voce è un vero e proprio strumento aggiuntivo che Gunna usa per sviluppare un accorato lavoro di timbri, dal sussurrato al più aperto. A questo aggiunge un consapevole uso dell'autotune e della cosiddetta baby voice, che fa spesso da sfondo alle linee melodiche. Magistrale è anche il lavoro musicale, tra i più riusciti dell'anno, con alcuni dei nomi di massimo rilievo in forma smagliante, tra i quali spicca un ispiratissimo Wheezy, già da tempo fedele del percorso Gunna. “Wunna” fa il punto della situazione sui suoni più di tendenza e lo fa con gran classe.
Kehlani - “It Was Good Until It Wasn't”
Dando uno sguardo invece a ciò che sta succedendo nella scena femminile, realtà in continuo fermento che non ha paura di prendersi importanti eredità, uno dei ritorni più apprezzati dell'anno è rappresentato sicuramente da quello di Kehlani, che prosegue quanto di buono aveva creato in “While We Wait” e precedenti: una voce fuori dal coro innanzitutto per la sua prorompenza. A far capo alle più fresche idee musicali della corrente, troviamo una personalità tagliente, a cui non piace seguire le regole quanto vedere fino a che punto arrivare prima di crearne di nuove. Padrona dei più moderni idiomi del Soul e R&B, Kehlani riprende da un gusto vintage un certo sentimento passionale che espande ad ogni tipo di relazione: partendo da sé stessa riesce a investire la realtà che la circonda con un linguaggio a volte colorito ma che non perde mai le sue buone intenzioni. Anche da quel punto di vista riesce a liberarsi di ogni convenzione per esporre ogni sua fragilità come anche ogni lato ironico, non perdendosi mai in troppi giri di parole. Ciò che domina il tutto è assolutamente la brillantezza vocale, capace di ambientarsi a perizie tecniche di assoluto spessore. Ad accompagnarla in questo viaggio alcuni ospiti di grande levatura: da Masego a James Blake, da Jhenè Aikò a Lucky Daye, che modulano con altrettanto bravura nelle proprie aree di competenza. Stupendo racconto quotidiano con momenti davvero memorabili.
Moses Sumney - “græ”
Cercando in continuazione naturali conseguenze di fenomeni musicali sviluppati nel tempo, ci piace pensare che Moses Sumney sia l'anello di congiunzione tra la storia della musica afro in America e le più complesse energie elettroniche dei nostri tempi. “græ” è la sua opera seconda che, dopo l'eclettica visione di “aromanticism”, porta ancora una volta avanti il suo perchè artistico: pubblicato in due parti, sarebbe facile perdersi nelle affollate strade che compongono le influenze dell'album. Energie ben diverse sono quelle incanalate nella sua multiculturale esperienza che raccoglie elementi di tradizione operistica, sfumature africane immortalate in un prestante tecnicismo, anche qui di richiamo jazzistico. Ci troviamo di fronte a un complesso assioma musicale con cui, anche alla fine della fiera, è difficile fare i conti. Una voce dorata fa i salti mortali per farsi trovare pronta a ogni intenzione, a ogni intensità, a ogni timbro, per coronare un barocco metodo compositivo che, pur perdendosi in tanti orpelli, trova sempre modo di tornare a casa. Non ci sono certamente scorciatoie in questo sensazionale viaggio spirituale, che si avvicina alle più sacre dimensioni del gospel per tramandare emozioni eterne. Merito anche della produzione illuminata di nomi del calibro di FKJ, Adult Jazz e Oneothrix Point Never, alcuni tra i nomi più caldi della scena internazionale. Ricapitolando, una perla rara che va recuperata a ogni costo che racchiude quanto di buono la musica black abbia edificato in questi ultimi anni.
Phoebe Bridgers - “The Punisher”
“The Punisher” è un capolavoro. E sì, alcuni non sapranno di cosa stiamo parlando, ma partiamo proprio da questo presupposto: “The Punisher” è un capolavoro. Ha l'aria di esserlo, ha l'essenza giusta, ha la caratura artistica più intensa dell'anno. Il tutto è merito della ventiseienne Phoebe Bridgers, che modella la musica e la sua storicità a proprio piacimento: da echi shoegaze anni '90 al più malandato dei dischi indie rock, dall'apertura ambient all'intimismo folk. E l'acclamazione generale della critica arriva fino a un certo punto: molto prima arriva l'incredibile lavoro compositivo dell'album che a momenti di estrema quanto semplice empatia affianca richiami d'avanguardia. Dolcezza struggente e folle malinconia si risolvono nel caldo che avvolge, travolge, imbarazza l'ascoltatore. Un intimo rituale si va via via levando nella notte inseguita lungo tutto il disco in cui Bridgers cerca sé stessa, e con un incredibile gioco di ruoli, ci insegna qualcosa di noi. Un percorso lento che non ha paura di prendersi il suo tempo che però pian piano incanala il coraggio emotivo in un coraggio molto più fisico, focoso: improvvisi stacchi sinfonici accompagnano note di chitarra strozzate in un turbine sentimentale prima, in silenziose grida a sé stessa poi. Con la giusta predisposizione all'ascolto sarà facile cadere nei poetici rivolti di queste ballate. Lo strascico meno black di questa selezione diventa a sorpresa il vero gioiello dell'anno. Arte d'altri tempi.
Thundercat - “Is What It Is”
Con la sua aria da genio tuttofare, Thundercat è uno degli ultimi sopravvissuti alla rivoluzione industriale della musica, vivendo in un mondo incantato di cui a noi non restano che le briciole. Venuto alla ribalta grazie a importanti unioni con nomi di prim'ordine come Childish Gambino, punto di non ritorno per capire l'evoluzione del jet set musicale, e Kamasi Washington, genio visionario del jazz contemporaneo, fino alla più preziosa con Kendrick Lamar raccolta all'interno dell'anthem “To Pimp A Butterfly”, solo poco tempo fa l'artista Losangelino usciva con un capolavoro come “Drunk”, che ha finalmente inquadrato un personaggio difficile da schematizzare. Il suo viaggio è proseguito fino a quest'anno, quando, raccolte le forze, rimette in piedi in un'altra opera decenni di evoluzione musicale degli ambiti più disparati: “It Is What It Is” è un caos multitematico che cerca freneticamente sempre qualcosa di nuovo da occupare. Rende punk acuti coretti soul, rende funk caotici excursus elettronici, rende pura new wave amalgama di intimi approcci vocali, rende il jazz maleducato, disorientante, istantaneo, in rapido cambiamento: la ridotta durata delle tracce lo sottolinea meno del suo contenuto. Ed è tutto dire. Sballottatati da un capo all'altro da complesse composizioni che diventano improvvisamente pop, si fa fatica a trovare punti di riferimento, con liriche che giocano spesso su una sentita emotività e una dissacrante ironia. Un trip delirante, innovativo, avanguardistico che con lo scorrere dei minuti sembra dimezzare gradualmente i bpm, rallentarsi, per farci derivare ancora di più dalla triste realtà di tutti i giorni. Estraniante.
Westside Gunn - “Pray For Paris”
Il più emblematico e ambizioso progetto prodotto quest'anno dal collettivo Griselda crea arte dall'arte: l'eccentrica personalità di Westside Gunn questa volta si è superata per dare vita al culto definitivo, la somma di dozzine di progetti in pochissimi anni. Il trio di Buffalo ha dato nuova linfa a una scena hip-hop underground chiusa nei suoi confini, rubando il capitalismo più sfrenato della trap pagato con il costo della strada: griffes ovunque amplificano il loro messaggio spregiudicato, un messaggio che ha presto garantito i favori dei più grandi nomi della scena prima che del pubblico. Un fervore interno del settore che in questi casi indica che qualcosa, effettivamente, sta succedendo. E se Conway e Benny uniscono lo stile a un'attenzione formale perfetta, il più eclettico Westside Gunn porta alle estreme conseguenze l'idea prestabilita. La sua voce stridente, acuta, piena di stonature, s'incollerà alle vostre orecchie, sarà difficile da digerire e, alla lunga, quasi da sopportare. È il prezzo da pagare per godere di una delle esperienze artistiche più geniali che il genere abbia regalato negli ultimi anni: è così anche per “Pray For Paris” per come si presenta, per come è composto, per come fa il punto della situazione. Non sappiamo mai bene se pensare alla cura maniacale o a un'istintiva genialità, ma sta di fatto che West è pronto a sovvertire le regole, ad essere un personaggio scomodo, un personaggio che sembra rinchiudersi nel suo mondo artistico che apre solo a pochi eletti. E se dietro al microfono passano leggende immortali come le proposte più sperimentali della scena, dietro le macchine la formula e il personale restano serrate: i sample “senza batteria”, scarni ma internamente ricchi erano e rimangono il vero fondamento dello stile Griselda. E qui c'è tutto questo ma c'è anche altro: c'è la sana follia di chi rispetta gli standard solo dopo averli ricreati. “Pray For Paris” è il vero monumento hip-hop di quest'anno, da recuperare obbligatoriamente.
advertising
advertising