Questione di styling. Ecco come il vestirsi diventa un’arte
STYLE
7 Aprile 2025
Articolo di
Camilla Bordoni
Questione di styling. Ecco come il vestirsi diventa un’arte
Cosa significa davvero fare styling? È una domanda apparentemente molto semplice che però tra le righe nasconde una complessità inimmaginabile. D’altra parte nella moda ogni capo, accessorio e dettaglio non è mai propriamente fine a sé stesso, perché come vi abbiamo detto in precedenza, l’abbigliamento che scegliamo racconta una storia ed è sempre portatore di un messaggio, personale o culturale.
Quindi come si fa a risolvere l’impasse al gettonatissimo «Cosa mi metto?». Al di là dei famosi trend TikTok, il fashion può contare fortunatamente su una figura capace di trasformare il semplice atto di vestirsi in una vera e propria arte: ovvero lo stylist. Abbiamo già affrontato in passato il ruolo di questo architetto silenzioso che cuce addosso ai suoi clienti dei veri e propri racconti estetici, tuttavia per chiarire l’insidioso argomento styling questa volta abbiamo pensato di chiedere direttamente a una di questi esperti. Una professionista che dal 2013 lavora con un portfolio di grandi artisti, tra cui spiccano i nomi di Alessandro Cattelan, di Stefano de Martino, di Malika Ayane e di Dargen D’Amico; senza considerare le collaborazioni con artisti del calibro di Arisa, Marracash, Marco Mengoni, Maneskin, Emma Marrone, Tiziano Ferro, Joan Thiele e molti altri.
Si tratta di Rebecca Baglini che a noi ha spiegato: «Styling è una parola troppo piccola per racchiudere un lavoro così grande. Ci sono conoscenza, consapevolezza, cultura della moda e della società, la padronanza dei tessuti, del corpo, persino della psiche umana. È la possibilità di accompagnare un messaggio, di renderlo più forte, di abbattere pregiudizi e, allo stesso tempo, amplificare la grandezza di un artista o di chiunque si trovi al centro di questo processo. Lo styling è ovunque, fa parte di tutto. Anche dietro gli scatti e-commerce c’è styling, perché significa dare vita ai capi. Vuol dire dare movimento e anima a un oggetto che, a prima vista, potrebbe sembrare inanimato, ma che in realtà, se trattato, nel modo giusto è vivo. Di base è questo, ma è anche molto di più: significa saper scegliere il tipo di fotografia, il fotografo giusto, la luce adatta, la creatività più efficace per trasmettere un’idea».
Styling: tra creatività e strategia
Fare styling non è solo una questione di gusto, ma anche e soprattutto di visione. Non si tratta solo di mixare abiti e accessori perché lo stylist a ben vedere affina un’immagine, scolpisce un’identità e plasma una narrazione visiva. Detto così sembra il lavoro dei sogni ma ricordatevi che, dietro ogni scatto di un look virale, c’è un lavoro certosino altamente complesso, fatto di ricerca, sperimentazione e strategia. Per fare un buon styling bisogna di fatto conoscere la storia della moda? Per lo più sì, ma in gioco ci sono molte altre variabili; come un’ampia rete di contatti nel settore e skills adatte a sapersi muovere tra richieste dei clienti, brand e aut aut dei designers.
«Quando inizio un nuovo progetto, parlo sempre di fiducia, coesistenza, conoscenza, imprinting. Non è necessario diventare amici, ma è fondamentale che le nostre arti trovino un punto di incontro, per poter lavorare sulla stessa frequenza. È un processo molto delicato, lo vedo come una sorta di innamoramento delle arti, di “matrimonio felice”, ma non è detto che sempre funzioni. Se si riesce a fidarsi e comprendersi allora la partnership può nascere davvero. Spesso, però, si fa fatica a capire che il lavoro dello stylist è una forma d’arte. Faccio un esempio forse un po’ forte: non si può dire a uno chef stellato come cucinare perché ciascuno di loro mette la propria interpretazione nei propri piatti. Così anche lo stylist ha una visione artistica, è un artista che deve poter esprimere la propria interpretazione, ovviamente in collaborazione con il cliente o il brand, nel rispetto delle esigenze specifiche e valorizzando chi ha davanti. La sintonia tra stylist e client non è qualcosa che si costruisce a tavolino: o c’è, o non c’è. Io scelgo sempre con pancia e testa, valutando attentamente chi ho di fronte, comprendendo dove posso arrivare e dove invece non potrò mai arrivare. Serve consapevolezza», ha spiegato Rebecca Baglini.

Il mestiere di stylist è perciò una continua sfida tra creatività e pragmatismo. Da un lato, c’è la libertà creativa che predilige sperimentare, magari puntando su capi voluminosi, colorati o realizzati con materiali stravaganti. Dall’altro, c’è la necessità di rispettare le esigenze del proprio assistito e le possibili imposizioni commerciali di alcuni marchi. Tuttavia il primo step necessario è appunto quello di trovare la giusta sintonia al fine di costruire la giusta linea narrativa estetica capace di valorizzare sia la sua persona, sia (di riflesso) il lavoro del consulente di immagine.
«La sintonia è fondamentale. Come spiegato prima: se c’è fiducia, si possono raggiungere i massimi risultati; se manca, si è semplicemente vestiti bene. Tutto dipende dall’obiettivo che ci si pone. Si può scegliere di essere solo “vestiti bene”, indossando capi dal costo molto elevato che simboleggiano uno status symbol. Oppure si può creare una forma d’arte che diventi una sorta di divisa, un codice visivo riconoscibile, capace di lasciare il segno nella storia del costume», ha continuato Baglini, mentre per quanto riguarda le skills necessarie per questo lavoro ha chiarito: «Non credo che esistano regole rigide o formule essenziali. Ci sono delle caratteristiche importanti come avere cultura del costume, della storia, essere curiosi e fare ricerca, avere attenzione per i dettagli, rispetto e precisione. Di base è un mix di tanti fattori. Senz’altro avere una visione imprenditoriale è fondamentale: bisogna capire il mercato, non essere egocentrici né egoisti, e riuscire a gestire tutte queste variabili senza farsi intimidire. Si tratta di avere la consapevolezza che questo è un lavoro complesso, faticoso, fatto di relazioni, ma anche di logistica, di gestione dei capi, di negoziazione e di determinazione. È un lavoro enorme, un equilibrio tra il ruolo di operai della moda, imprenditori e creativi. E poi c’è la sfida più affascinante: farsi comprendere anche da chi non parla il nostro stesso linguaggio, perché è proprio lì che nasce la vera bellezza del nostro mestiere».
Insomma fare styling non è poi così facile come si potrebbe pensare. Le insidie e gli errori sono dietro l’angolo perciò a questi punti è naturale chiedersi da dove è giusto cominciare per creare un look? Ovviamente la risposta potrebbe essere soggettiva, ma Rebecca ci ha confidato: «Io inizio dalla persona che ho di fronte: dalle emozioni che mi trasmette, dal suo modo di essere, dal suo vissuto. Mi lascio guidare da ciò che mi suscita, se mi fa sorridere, se è una persona più introspettiva, se porta con sé sofferenze. Io parto sempre da dentro. Studio la persona, cerco di immaginarla nella sua essenza, come vorrei vederla, come vorrei che si mostrasse al mondo. È un processo profondamente psicologico. Il mio lavoro mi ha sempre salvata e curata, ed è per questo che lo affronto con estrema dedizione e professionalità. A volte tendo a nascondere la parte più poetica ed emotiva di ciò che faccio, ma la verità è che per me tutto nasce dall’emozione. In realtà in ogni progetto metto moltissimo di me stessa: del mio passato, del mio presente, della mia conoscenza. Credo che la nostra mente debba sempre rimanere aperta a nuove realtà, nuovi input, nuovi contrasti. Abbiamo bisogno di essere contaminati, perché la contaminazione è la base di tutto, da cui nascono le idee più forti».
Dietro le quinte dello styling: pro, contro e insidie del mestiere
ll mondo dello styling è affascinante, ma non è un settore per deboli di cuore. La flessibilità è tutto. È vero, l’adrenalina del cambiamento continuo, il fascino di lavorare a contatto con artisti, modelle e griffe di lusso o la possibilità di lasciare un segno nel fashion system sono sicuramente fattori appetibili tuttavia bisogna avere ben chiaro che il dietro le quinte è molto meno patinato di quanto si possa immaginare. «Le difficoltà sono state tantissime, soprattutto nel farmi rispettare come donna in un ambiente come questo. È molto difficile. Viviamo in un contesto in cui prima conta il ruolo, poi subentra il pregiudizio, poi arriva l’analisi della persona. Il network sicuramente è importante, ma non è tutto, a volte può essere persino controproducente. Io credo che debba parlare il proprio lavoro: se sei una persona vincente dal punto di vista professionale, allora il network arriva, ma spesso è solo fumo, perché rischia di dare spazio a persone che non hanno davvero le competenze. Essere “amici di“ può essere utile, ma se non sai fare bene il tuo lavoro, alla fine non importa. Sono figlia di un operaio e ho sempre voluto costruire il mio percorso con impegno e studio, aggiornandomi e studiando continuamente per migliorarmi. Non è stato facile, perché questo è un ambiente estremamente chiuso. Il rispetto, quando lo ottieni, è perché te lo sei davvero guadagnato. E ancora oggi, diciamo che c’è molta strada da fare», ci ha spiegato Baglini
Per chi pensa che non si possa partire da zero si dovrà ricredere quindi, perché se da una parte la rete di contatti è sicuramente importante nel lavoro dello stylist, dall’altra quello che conta davvero e che determinerà il corso futuro degli eventi è la passione e l’impegno. Due caratteristiche che possono portare grandi risultati, come quello di partecipare a una kermesse importante come Sanremo…
«Il lavoro per il festival inizia mesi prima, almeno due o tre. È un processo complesso di coordinamento, logistica e creatività. Si tratta di individuare i fornitori giusti, trasformare le idee in realtà e dare vita a un concetto visivo concreto. E questo significa gestire trasporti, van, fitting, oltre a collaborare con uffici stampa, brand, case discografiche e manager. Ogni dettaglio viene studiato con attenzione: dalla strategia di comunicazione alla reazione del pubblico, fino a garantire la soddisfazione dei direttori creativi e degli uffici stampa delle firme coinvolte. Riguardando le esibizioni, per me il passaggio televisivo non è solo una questione di quale marchio veste l’artista, ma della resa scenica e della direzione creativa. Quel momento non è solo moda, è storia: storia dell’Italia, della musica, del costume, della cultura. Essere la stylist della kermesse in sé non mi interessa. Quello che mi interessa è lasciare un segno nella storia del costume. È questa la vera essenza del mio lavoro. Bisogna sempre ricordare che noi, come individui, non siamo nessuno, ma il risultato estetico e visivo che portiamo sul palco resta per sempre»
Fare styling perciò implica studio, capacità creative e soprattutto organizzative; il tutto tenendo a bada gli ostacoli che possono presentarsi durante il processo: come la pressione costante a cui è possibile essere sottoposti, le tempistiche serrate, gli imprevisti o le richieste improvvise. Insomma, il glamour esiste, ma è solo la punta dell’iceberg di un lavoro che richiede dedizione, resistenza e una determinazione incrollabile. Una concentrazione tale che non fa mai perdere di vista l’obiettivo principe del mestiere, nemmeno in una cornice come quella sanremese dove oltre alla presenza scenica quello che deve essere valutato è il rapporto di continuità tra l’abito e la canzone portata in gara dal cantante: «Io parto sempre dalla musica. Quando un artista arriva da noi, ci fa ascoltare il suo brano e da lì inizia tutto. Studio il testo, analizzo le parole chiave e cerco di capire quale sarà l’evoluzione del progetto, quale continuità avrà l’album e cosa vogliamo comunicare. È un’analisi quasi psicologica, se vuoi anche letteraria, che diventa la base per costruire un progetto visivo profondo. Tendo sempre a inserire elementi legati al design, all’arte, perché tutte le arti, partono dallo stesso nucleo. Il mio lavoro consiste nel combinarle, nel creare un mash-up che possa trasformarsi in qualcosa di iconico, capace di resistere al tempo. Non mi interessa inseguire l’hype del momento. Voglio creare immagini che, riguardate tra cinque anni, siano ancora bellissime e significative. Per questo parto sempre dalla musica: in alcuni casi è già così potente e vincente che non serve forzare con la moda o con uno stile troppo costruito. La musica comanda e noi troviamo il giusto equilibrio, aggiungendo o sottraendo elementi per ottenere il miglior risultato possibile».
Become a stylist: la differenza tra seguire la moda e crearla
Negli ultimi anni, il concetto di styling è diventato sempre più popolare, soprattutto grazie ai social media. Piattaforme come TikTok e Instagram hanno reso la moda più accessibile, talvolta insegnando a milioni di utenti come abbinare i capi in modi nuovi e originali. Ma c’è una differenza sostanziale tra il così detto “wearing” e lo “styling” perché dopotutto tra il creare uno stile e il vestirsi, che è una necessità, c’è una differenza abissale dal momento che quest’ultimo è: «Qualcosa di molto più profondo. Quando la nostra personalità diventa così forte da riflettersi anche nel modo in cui ci vestiamo, allora non siamo più semplicemente “ben vestiti”, ma riconosciamo noi stessi nello stile che abbiamo costruito. È una sorta di divisa, un segno distintivo che ci dà consapevolezza e sicurezza. Avere un proprio stile significa non dimenticare mai chi siamo. Per alcuni è un modo per risolvere un problema, per altri è semplicemente quel qualcosa in più che, guardandosi allo specchio, dà ancora più energia per affrontare la giornata e fare ciò che si ama».
Quindi non basta comprare un capo costoso per avere stile, bisogna saperlo interpretare. E gli stylist sono le menti che, con il loro occhio esperto, costruiscono immagini che lasciano il segno. «Penso a Shablo durante la finale in Brioni, un esempio perfetto di contromoda, oppure alla serata dei duetti con Neffa tutti in rosso con Palm Angels, un look iconico, è storia. Il mio obiettivo non è piacere a tutti o ricevere voti da casa, ma costruire qualcosa che resti nella storia. Quando un progetto diventa iconico, va oltre il giudizio personale, diventa un riferimento. Ci sono stati tanti momenti che hanno fatto la differenza: Arisa in Maison Margiela a Sanremo, i Ricchi e Poveri col fiocco, Alessandro Cattelan in Loro Piana (o in look Brioni indossato quest’anno a Sanremo, ndr), oppure Dargen con la giacca di Moschino custom con gli orsetti, il look ispirato ai naufraghi o Giuliano Sangiorgi con la camicia di Lucio Dalla. A me diverte quando ci sono cose che non c’entrano nulla tra di loro, ma che generano una realtà artistica e un’estetica inaspettata. Creare un look non è solo questione di tendenze, ma di costruzione culturale, di comporre un racconto visivo ed emozionale che dia significato a ciò che si porta in scena»
Per chi è giunto fino a questo punto però è normale che si chieda “ma come è possibile diventare uno stylist?” e forse a questa domanda non esiste davvero una sola risposta ma per Rebecca Baglini oggi significa: «Molto più che scegliere abiti: è un percorso lungo e complesso che richiede competenze imprenditoriali, creatività, capacità logistiche e tanta pazienza. Bisogna saper comunicare in modo profondo, essere empatici e collaborativi con tutte le persone coinvolte nel processo. Non è solo una questione di estetica, ma di visione, strategia e relazione. Di consigli ne ho ricevuto uno solo, ma è stato ed è fondamentale: Lorenzo Barindelli mi disse che tutto ciò che dovevo trovare era già dentro di me, che non dovevo cercare risposte negli altri, perché la mia visione era unica e le soluzioni erano dentro di me. Ci ho messo due o tre anni a capire ciò che volesse dire, se c’è il talento, l’unica cosa da fare è trovare la forza e la determinazione per farlo emergere. Questo lavoro è complicato, significa non lamentarsi, cercare sempre soluzioni, accettare che non verrai capita subito e che dovrai imparare a comunicare ciò che hai in testa trasformandolo in immagini, mood board, dialoghi e confronto. Non bisogna offendersi se il messaggio non arriva subito, ma avere la capacità, con eleganza ed educazione, di guadagnarsi la fiducia delle persone. Vestire qualcuno non è solo scegliere abiti, significa spogliare una persona del suo passato e rivestirla di qualcosa di nuovo, aiutandola a vedersi in un’altra luce. Come consiglio posso dire che è necessario interrogarsi a fondo su cosa si vuole davvero fare, senza lasciarsi trascinare dalla moda del momento».
Ora, non sappiamo quanti di voi vogliano diventare stylist ma siamo abbastanza sicuri che, se siete fan del fashion o trend setter attenti all’ultimo fetish glamour virale, vorreste sapere quale abito o accessorio non dovrebbe mai mancare nel guardaroba. Per fortuna avevamo a disposizione un’esperta in materia: «I capi che non dovrebbero mai mancare nel nostro guardaroba sono quelli che ci rendono felici, che ci fanno stare bene e che ci legano a un ricordo speciale. Sono quei capi che, una volta indossati, ci trasmettono una sensazione di forza e bellezza, proprio come l’ultima volta che li abbiamo portati. Credo che l’acquisto e il possesso di un capo debbano essere guidati dall’emozione che esso ci trasmette. Non si tratta di seguire l’hype o le tendenze, ma di scegliere ciò che rappresenta, per noi, bellezza, raffinatezza ed emozione».
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