Perché stiamo comprando sempre meno sneaker?
FOOTWEAR
24 Gennaio 2023
Articolo di
RedazionePerché stiamo comprando sempre meno sneaker?
Il momento che ha segnato la consacrazione delle sneaker come attestazione di uno status symbol non è facile da identificare, anzi, guardandoci indietro sembra che siamo tutti rimasti incastrati in un vortice da cui è stato difficile tirarsi fuori. Nuove release e nuovi leak, nuove paparazzate, folli ricerche online per individuare la scarpa ai piedi di una qualche celebrità, occhi puntati a distinguere il brand, e poi l’anno, l’edizione, la colorazione, la custom. Ebbene, c’è stato un momento, non tanto distante da noi, in cui sul web impazzava una domanda: “lo sneakergame resta collezionismo, o forse ci stiamo avvicinando alla psicosi?” più o meno.
In questo delirio, ognuno ha giocato la sua parte: i brand sportswear hanno tirato fuori i loro pezzi forti, cercando di coinvolgere quante più parti nel processo creativo; l’high-fashion ha provato ad adeguarsi, riprendendo silhouette appartenenti a orizzonti diversi, e ognuno di noi, nel suo piccolo, ha giocato la propria parte.
Eppure, volendo tirare le somme del 2022, e dando un’occhiata a cosa può offrirci il 2023, sembra che le “scarpe da ginnastica” si siano allontanate dagli interessi della collettività. Ma dove abbiamo sbagliato tutti? Proviamo a capirci di più.
Il ruolo dei social network
Sicuramente sarebbe ipocrita additare i social network come la rovina del mercato delle sneaker, e non è nostra intenzione farlo. È però anche vero che un pensiero critico è imprescindibile dal ruolo che hanno giocato. Dai social media, dalla community online, è partito l’accrescimento del bacino di utenza, e la rispettiva domanda e l’interesse per le scarpe. Sempre dagli strumenti digitali, è partito anche il deterioramento della community. Internet ha diffuso la conoscenza di sportivi, musicisti, rapper, registi e attori che hanno lasciato la propria testimonianza nel game, offrendo anche la possibilità di fidelizzare il cliente tramite un diretto contatto con il brand, e tutto ciò è stato possibile grazie ai forum. Come Jordan e i Run DMC, le celeb su Instagram hanno trasformato il gioco. Come già detto, in principio tutto ruotava attorno a sneaker, se non uniche, quanto meno non alla portata di tutti. Instagram e gli altri social network hanno reso il tutto una competizione alla ricerca di like, non che ci sia nulla di male nei bias di conferma di cui siamo vittime, se però la novità si traduce in una lotta al click, allora la creatività sarà soppiantata dall’arrivismo. Ugualmente, la sovraesposizione delle sneaker, a poco a poco, le ha rese ripetitive, prevedibili e a tratti noiose. Forse a nessuno importa più come abbini quel paio di Air Jordan 1 “Lucky Green” con una Padded bag Bottega Veneta, perché ti sei allontanato troppo dal focus d’attrazione. Prima di tutto ciò, c’era una sorta di hunting, ed era lo stesso sneakergame a porre barriere ed ostacoli sul percorso, rendendosi più allettante agli occhi altrui. Un vero e proprio gioco, dunque, che accresceva la curiosità e l’interesse per l’item, il brand, e la persona che lo indossava.
Quando un hobby è diventato un affare?
Anche i social media, e gli utenti che li abitano, in qualche modo sono rimasti vittima del boomerang dello sneakergame. Guardando i feed e gli hashtag, tanto le aziende quanto i consumatori sono stati in grado di comprendere le abitudini d’acquisto delle persone, cosa potrebbe funzionare, su cosa spingere e su cosa arretrare. E ancora, l’esistenza di piattaforme e siti web che suggeriscono eventuali prezzi di rivendita ha contribuito all’espansione del fenomeno. Dunque, un hobby, sia il possedere scarpe, sia il navigare in rete, sia lo scambiare item, che è diventato un affare. Un affare poi esploso dopo che il mercato è stato letteralmente monopolizzato da alcune, influenti, personalità. Che ci ricordi la bolla dei papaveri al mercato di Amsterdam? Beh sì, un pochino. Eppure, siamo ancora qui a parlarne. Se, in principio, l’idea di quasi irraggiungibilità accresceva lo status fascinoso della silhouette in questione, se questa irraggiungibilità è data da mano invisibili che monopolizzano il mercato, a lungo andare, un pochino ci siamo annoiati.
Qualità, quantità… ma a chi importa?
Il costo di questa sovraesposizione mediatica è che la quantità va ad intaccare la qualità. Certo, comunque non stiamo parlando di un mocassino artigianale, in nappa di vitello, fatto su misura da un mastro calzolaio toscano, ci mancherebbe altro! È pur vero, però, che rilasciare centinaia di sneaker tutte uguali, in cui l’unica variabile è il box, il taglio, la colorazione, o il tessuto, ti espone a maggiori rischi di insuccesso. Certamente ci sono state release importanti che hanno custodito e valorizzato un concept, una storia, un’idea, un progetto o un ricordo, ma a poco a poco sono andate perdendosi, nella volatilità degli interessi umani, e nel mare magnum di lanci in programma. I brand hanno investito risorse ed energie per capitalizzare il rinnovato interesse nei loro modelli storici, dimenticandosi di pensare al futuro della scarpa. Se prima una sneaker poteva rappresentare un elemento di distinzione dal resto, c’è stato un momento in cui tutti abbiamo posseduto delle sneaker ma senza alcuna presunzione di far, in alcun modo, la differenza. Pena capitale, quindi, per la cecità verso il futuro: per tutte ciò che è stato investito nel donare un passato edulcorato in pasto ad un mercato labile, senza alcuna programmazione futura, né tantomeno circolare e sostenibile, del game. Un sentiment fortemente condiviso nella community, come dimostrato dai commenti nei forum o nei video Tik Tok, dove, tra le silhouette che hanno maggiormente annoiato, troviamo le innumerevoli Nike Dunk (soprattutto le “Panda Low”), le New Balance 550, e le Air Jordan 1.
La caduta degli Dei, la fine delle grandi collaborazioni
Guardandoci indietro, l’avvento delle sneaker nella cultura di massa potrebbe ascriversi alle collaborazioni iniziate tra Kanye West e adidas, Kanye West, Virgil Abloh, Travis Scott, Jerry Lorenzo e Nike, giusto per citare quelle che, negli anni, hanno maggiormente subito l’influenza dell’hype. Ed è proprio in questo punto di snodo fondamentale che si intrecciano leitmotiv e dinamiche di mercato. La decisione di un brand di affiancarsi ad una forte personalità creativa è stata, da sempre, uno degli elementi fondanti di questa cultura, basti pensare alle prime A Bathing Ape in collaborazione con Ye nel lontano 2007. Da quel momento, di acqua sotto i ponti ne è passata molta, e sempre più aziende hanno avvertito la necessità di affiancarsi ad un grande designer\musicista\creativo per ritagliarsi la propria nicchia di mercato. Se le Nike Air Yeezy sono riuscite a mantenere la sacralità e il fascino senza tempo, è stato solo perché tuttora è quasi impossibile accaparrarsene un paio. Al contrario di quanto poi è successo per tutte le altre sneaker su cui ha messo la firma. Sebbene il suo intento di rendere le adidas yeezy accessibili a chiunque, fino a trovarle sugli scaffali anche mesi dopo la release, è anche vero che questa enorme immissione sul mercato di sneaker oggettivamente tutte uguali ha annoiato e stancato il pubblico. Un po’ come ciò che ha fatto Virgil Abloh con Nike: la prima linea, la “The Ten”, è stata un enorme successo. Dieci sneakers reimmaginate secondo l’estro creativo di Abloh, fine. Peccato che poi, anche lì, come ironicamente ha affermato qualcuno siano diventate “The Hundred”, ovvero fin troppe. Le scarpe in collaborazione con il cantante di Houston continuano a reggere la botta del mercato, ma non tutte. Ciò che ancora tira, della linea firmata Travis Scott, è il fatto che ha cavalcato il ritorno in voga delle Air Jordan 1, compresa una spettacolare uscita direttamente con il supporto di Fragment Design, delle Nike Dunk e delle Air Force 1. Tanto con Travis quanto con Abloh, Nike ha provato ad offrire nuovi spunti ai suoi affezionati compratori, proponendo ad esempio le Nike Air Max 270, rilanciando sul mercato la Nike Air Trainer 1, la Air Max 1, le Nike Waffle Racer OW, le Nike Air Rubber Dunk OW, o anche l’iconica Jordan 2, peccato, però, che l’ingordigia si manifesti e si risolva solo attorno alle silhouette più hype, determinando un “flop” di release marginali, acquistate quasi esclusivamente da persone che sperano, un giorno, di poterci guadagnare il 300%. Purtroppo, ora che Kanye West è fuori dai giochi, e che l’estro creativo di Abloh è andato spegnendosi, che anche con Travis Scott siamo quasi agli sgoccioli, e che con Jerry Lorenzo le collaborazioni si sono concluse, resta da chiedersi: “Ma il futuro, dov’è?”.
A racchiudere quanto abbiamo appena affermato c’è la General Purpose Shoe di Tom Sachs, che, ben lontana dalla sacralità che avvolge le prime Mars Yard, si colloca nello scenario di una sneaker maggiormente accessibile, e per questo, purtroppo, meno desiderata. Dunque, che la strategia giusta da adottare sia di rinnovare il portafoglio collaborazioni, non volendoci offrire, forzatamente, una versione edulcorata di quanto già visto e amato in passato? È chiaro che la maggior parte delle persone siano rimaste legate alle colonne portanti di brand come adidas e Nike, e che, pertanto, facciano difficoltà ad apprezzare nuovi modelli, o riedizioni di silhouette non così note. Una paura del cambiamento tanto nota all’animo umano quanto inespugnabile. Accettiamo il nuovo, sì, ma solo se abbracciamo una nuova filosofia da zero, come nel caso di altri brand, con meno silhouette consacrate al mercato mainstream, come Asics, Salomon, New Balance etc.
La paura dell’ignoto e l’ascesa di un’idea diversa di sneaker
Se queste piccole scosse di terremoto hanno fatto tremare le torri più alte, d’altra parte hanno fornito input di sviluppo a quelle più piccole. È quanto si può osservare nei report di Business of Fashion secondo cui brand come On, Salomon e Asics stanno guadagnando terreno nel mercato delle sneaker. A fortificare la rinascita di questi marchi c’è sicuramente l’influenza ciclica dei trend: il riaffermarsi del gorpcore, e dell’utility prima del trendy, ha dato un buon boost alle scarpe tecniche. Sempre più spesso, per distaccarsi dal filone di scarpe da ginnastica hype, che siano da basket o da skate, si punta su silhouette da trekking, o su design non convenzionali, nell’irrinunciabile ricerca della propria nicchia di unicità. È questo il caso delle Salomon, ad esempio, ma anche delle Asics, che comunque sta puntando su nomi di rilievo per espandere il suo portafoglio clienti. L’ascesa di quest’ultimo, partita un po’ in sordina, inizia oltre tre anni fa, quando sugli scaffali e in rete sono comparse le immagini delle collaborazioni con Ronnie Fieg, Sean Wotherspoon e atmos, Kiko Kostadinov, Awake NY, JJJJound. È anche il caso di Salomon, che ha lavorato molto per rendere più appetibili i suoi modelli, proponendo palette di colori più in linea con le richieste di mercato, provando ad avvicinarsi anche all’high-fashion con la sneaker in collaborazione Maison Margiela e Comme des Garçons. Infine, se è vero che talvolta la collaborazione supera lo stesso valore del brand, è anche vero che alcuni personaggi di spicco collaborano esclusivamente per una condivisione di orizzonti: è il caso di On e Roger Federer. Re Roger, che in passato ha indossato Nike e UNIQLO, all’inizio del 2020 ha sposato la causa On, diventandone socio. Una nuova idea di sneaker, che ha proposto anche ad alcune delle giovani promesse sportive, molto simile ad una Stan Smith firmata da adidas. La Serie-0 della TheRoger Centre Court è sì pensata per i campi, ma anche per il lifestyle del quotidiano, ed inoltre è sponsorizzata dal più iconico idolo tennistico, che vogliamo di più?
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