STYLE

7 Ottobre 2021

Articolo di

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Alessandro Giura

Moda e NBA: come è cambiato negli anni lo stile dei campioni del basket fuori dal parquet

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7 Ottobre 2021

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Alessandro Giura

Moda e NBA: come è cambiato negli anni lo stile dei campioni del basket fuori dal parquet

Su Netflix è da poco uscita la serie di documentari sportivi Untold, e se siete appassionati di NBA vi consigliamo di guardare il primo episodio. In Untold: Malice at the Palace si rivanga e si mette nuova luce sulla più grande rissa della storia della lega cestistica statunitense: durante Detroit Pistons-Indiana Pacers del 19 novembre 2004, in seguito a uno scontro in campo ne seguì uno furioso tra giocatori e pubblico, dove si distinse in particolare Ron Artest. Un incidente di percorso, destinato a diventare un video virale su YouTube; ma quell’episodio è entrato nella storia della lega, con conseguenze visibili ancora oggi.


La rissa fece puntare ai media il dito contro la cultura hip-hop, che i giocatori sentivano propria, sfoggiando fuori dal campo attraverso gli outfit, e in campo con l’atteggiamento da duri, generalizzando su un’influenza negativa che i cestisti riflettevano sul resto del mondo. Così il commissioner David Stern decise che l’NBA sarebbe diventata la prima lega professionistica ad avere un dress code a partire dalla stagione seguente. In pratica si richiedeva agli atleti di presentarsi al palazzetto in giacca e cravatta, in particolare a chi non era a disposizione per la partita ma presenziava comunque in panchina assieme ai compagni di squadra. Più che altro si proibiva ai campioni di sfoggiare vestiti o accessori quali T-shirt, canotte, magliette da football, cappellini, bendane, cuffie, catene e ciondoli sopra i vestiti. Veniva così richiesto uno stile “business casual attire”.


Ovviamente molti atleti non videro di buon occhio questa nuova regola, ritenendola discriminante a livello razziale. Paul Pierce non era contento di non poter sfoggiare i suoi gioielli. Stephen Jackson, tra i protagonisti dei Pacers quella notte al Palace, dichiarò “l’abito non fa il monaco”, Jason Richardson di Golden State gli fece eco: “Trovo un po' razzista che non si possano sfoggiare catene fuori dai vestiti. Alcuni di noi hanno significati religiosi dietro le loro catene, altri hanno messaggi personali. Ad alcuni ragazzi piace semplicemente indossarle. Penso sia indirettamente razzista”. Ma in particolare la stella dei Philadelphia 76ers Allen Iverson si sentì il dito puntato addosso. In quegli anni era uno degli atleti più in vista del mondo e un’icona dell’urban style grazie alle sue treccine, ai suoi tatuaggi, alle collane e ai vestiti larghi: “Era palesemente rivolta a me quella regola. Non volevano che fossi così”. Un attacco alla cultura hip-hop in una lega in cui la maggioranza degli atleti è afro-americana e ne sono diventati icone, nella speranza diventassero invece modelli positivi.


Allo stesso tempo i giocatori più giovani, allora volti del futuro della lega, abbracciarono il dress code, LeBron James e Kobe Bryant su tutti. Anzi in molti casi hanno questa regola è stata utilizzata per dar via a una sfida di eleganza, facendo entrare l’alta moda sul parquet insieme ad adidas e Nike. Dwayne Wade dei Miami Heat è sempre stato tra i più competitivi a sfoggiare giacche interessanti: “È stato tipo ok, ora dobbiamo vestirci davvero bene e non possiamo semplicemente metterci una tuta, poi è diventata una competizione tra noi, ti appassiona e hai iniziato a capire davvero i vestiti che metti, i materiali che stai iniziando a indossare; quindi poi ne diventi ancora più fan”. Questa idea di come sfruttare il dress code lo ha portato a un altro livello, che ben inquadriamo oggi. L’ingresso al palazzetto indossando capi firmati dalla testa ai piedi è diventato quasi parte del lavoro. Ora si collabora fino in fondo con designer e stylist, arrivando a sintonizzarsi con i propri gusti personali e programmare gli outfit da sfoggiare con settimane se non mesi di anticipo. Su tutti Serge Ibaka che sfodera ogni sera look talmente curati da rendere degna della sua dichiarazione “I don’t dress, i do art”. Io non vesto, faccio arte.


E come lui tanti altri: le superstar come LeBron catturano sempre l’attenzione, poi c’è chi è più attento ai messaggi come Chris Paul o chi più pavoneggiante come Kyle Kuzma e Kelly Oubre. Per dire i ragazzi in uscita dal college, hanno trasformato il Draft NBA, ovvero la sera in cui le squadre li scelgono e diventano professionisti, in una gara a chi indossa l’outfit più d'impatto. Oggi le persone non guardano solo come vestono i giocatori, ma anche cosa vorrebbero indossare a loro volta, che sia un paio di Beats appoggiato in testa o uno di Air Jordan ai piedi. Tutto cìò ha permesso ai giocatori NBA di diventare vere e proprie icone globali di stile e moda.


La convergenza tra moda e NBA non può essere negata. Ovviamente il concetto di eleganza è cambiato e il dress code ancora attivo non è più rigidissimo. Oggi il commissioner Adam Silver non multa LeBron James per arrivare in gara 1 delle Finals in pantaloncini cordinati con un abito Thom Browne. Stesso discorso quando Russell Westbrook entra al palazzetto con una capo senza maniche di Fear of God, o quando si è vestito da fotografo per deridere Kevin Durant. Le T-shirt sono ormai accettabili nel “business casual attire”. Le maglie da football o retro sono tornate, seppur coordinate ai jeans. Questo perché la percezione dell'NBA è cambiata, aiutata dagli atleti che hanno abbracciato il dress code e le indicazioni PR della lega diventando gli sportivi più invidiati al mondo per guadagni e immagine. Oggi infatti siedono in prima fila ai fashion shows. E tutto è partito con una regola che molti giocatori pensavano limitasse la loro libertà di espressione, finendo invece per liberarla del tutto.

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