Il guardaroba archetipico 2.0 della collezione autunno-inverno 2021 di Louis Vuitton
STYLE
21 Gennaio 2021
Articolo di
Angelo RuggeriIl guardaroba archetipico 2.0 della collezione autunno-inverno 2021 di Louis Vuitton
«Cosa vorresti essere da grande? Da bambini, i nostri sogni e le nostre aspirazioni sono personificati da archetipi: l'artista, il venditore, l’architetto, il vagabondo. Personaggi familiari nella quotidianità della società sono inseparabilmente definiti dalle loro uniformi: i codici di abbigliamento che associamo a professioni, stili di vita e conoscenza. Dalla testa ai piedi, le nostre menti sono intrinsecamente addestrate a delineare un guardaroba archetipico per aiutarci a identificare il personaggio di un individuo. Spesso questi personaggi sono legati alle presunzioni sociali del panorama culturale, di genere e sessuale».
Questo è l'incipit dell'ispirazione della nuova collezione uomo autunno-inverno 2021 di Louis Vuitton, che indaga sui pregiudizi inconsci instillati nella nostra psiche collettiva da norme arcaiche della società. Percezioni predeterminate impregnano le nostre prospettive con miti artificiali collegati alla genetica delle persone, delle idee e dell’arte. La moda diventa lo strumento del Direttore Artistico Virgil Abloh per cambiare questi preconcetti: mantenere i codici, cambiando i valori.
La sfilata è stata presentata come un'espressione artistica multidisciplinare di idee esplorate all'interno della collezione. Ambientata tra Parigi e un villaggio tra le montagne svizzere, la produzione è tematicamente ispirata dal saggio di James Baldwin “Stranger in the Village” del 1953 e prende vita attraverso una serie di performance di danza, pattinaggio sul ghiaccio, poesia e scenografia, rendendo omaggio al film “Playtime” del 1967 di Jacques Tati. Partecipa alla performance un cast stellare di artisti tra cui Kandis Williams, Tosh Basco, Saul Williams, Yasiin Bey, Black Cracker e Steven Sowah.
In “Stranger in the Village”, Baldwin traccia un parallelismo tra la sua esperienza come visitatore afroamericano nel villaggio di Leukerbad tra le montagne svizzere negli anni Cinquanta, l'unica persona di colore, e la sua vita come cittadino nero d'America. Racconta l’esperienza di essere riconosciuti e considerati diversi, incomprensibili, anche alieni. Rappresentativo di questa circostanza, “Stranger in the Village” analizza anche l'esperienza di essere neri in Europa, ed essere un artista nero nel luogo di nascita dell'arte europea.
La logica riflette le tradizioni culturali nere che utilizzano figure retoriche (ironia, giochi di parole, improvvisazione) per invertire e giocare con le connotazioni di codici prestabiliti. Queste tecniche creano nuovi significati e sovvertono i canoni stabiliti; per esempio, il modo in cui una frase standard in inglese può avere un significato completamente diverso in inglese afro-americano vernacolare. Virgil Abloh applica queste tecniche alla sua metodologia di progettazione, impregnando la grammatica di archetipi riconosciuti con genetiche diverse.
L'artista concettuale Lawrence Weiner costruisce una serie di schemi di aforismi legati a queste premesse: “YOU CAN TELL A BOOK BY ITS COVER”, “THE SAME PLACE AT THE SAME TIME”, “(SOMEWHERE SOMEHOW)”.
In tutti i capi e gli accessori, i motivi e le tecniche giocano sui temi dell'illusione, replicando il familiare attraverso le lenti ingannevoli del trompe l'oeil, del filtrage e del ri-appropriarsi del normale attraverso l'elevazione estrema. Che alimenta lo studio del ‘un-designed’: oggetti privi di proprietà artistica ed esatta provenienza storica. L'invito fisico alla sfilata è un modellino di aereo in legno di balsa ‘do it yourself’, un eterno simbolo di fanciullezza priva di proprietà artistica. «Chi ha deciso che il bicchiere è di carta? Chi chiodo in metallo? La matita? Si pone la domanda di chi può rivendicarne l’invenzione: chi può fare arte e chi può usufruirne. Concepiti al di fuori della sfera artistica, non progettati ed essenzialmente “normali”, gli oggetti rappresentano un dominio pubblico continuamente reinventato e rivendicato dal settore dell'arte».
Come conseguenza, la normalità è accentuata: il torpore in cui scivoliamo in seguito a periodi di instabilità sociale. Che aspetto ha la normalità, cosa significa e chi ha il privilegio di rappresentarla? Virgil Abloh porta in primo piano la sua idea consolidata di “Tourist vs. Purist”: il suo termine per l'outsider, colui che aspira ad un dominio esoterico di conoscenza contrapposto all'insider, chi lo occupa già. La collezione rileva i rispettivi codici per sfidarli e unificarli.
I capi e gli accessori più iconici e degni di grandissima attenzione? Senza dubbio i maxi cappotti con gli aerei al posto dei bottoni; i guanti lunghissimi, di pelle, da indossare con camicie «working» dalle maniche corte; i cappelli dalla tesa larga e i boots che si ispirano vagamente al mondo dell'Old Wild West; gli abiti formali, doppio petto, dalla silhouette ripensata anni Settanta; i capi tridimensionali che rendono i look ancor più realistici, con tanto di metropoli e grattacieli (anche se visti in maniera digitale), ma anche Parigi con la cattedrale di Notre Dame e la riproduzione della Tour Eiffel che penzola, attaccata al bomber; la bag Monogram a forma di aeroplano giocattolo, e la valigeria Silver brillante. Davvero, da collezione.
Questo è l'incipit dell'ispirazione della nuova collezione uomo autunno-inverno 2021 di Louis Vuitton, che indaga sui pregiudizi inconsci instillati nella nostra psiche collettiva da norme arcaiche della società. Percezioni predeterminate impregnano le nostre prospettive con miti artificiali collegati alla genetica delle persone, delle idee e dell’arte. La moda diventa lo strumento del Direttore Artistico Virgil Abloh per cambiare questi preconcetti: mantenere i codici, cambiando i valori.
La sfilata è stata presentata come un'espressione artistica multidisciplinare di idee esplorate all'interno della collezione. Ambientata tra Parigi e un villaggio tra le montagne svizzere, la produzione è tematicamente ispirata dal saggio di James Baldwin “Stranger in the Village” del 1953 e prende vita attraverso una serie di performance di danza, pattinaggio sul ghiaccio, poesia e scenografia, rendendo omaggio al film “Playtime” del 1967 di Jacques Tati. Partecipa alla performance un cast stellare di artisti tra cui Kandis Williams, Tosh Basco, Saul Williams, Yasiin Bey, Black Cracker e Steven Sowah.
In “Stranger in the Village”, Baldwin traccia un parallelismo tra la sua esperienza come visitatore afroamericano nel villaggio di Leukerbad tra le montagne svizzere negli anni Cinquanta, l'unica persona di colore, e la sua vita come cittadino nero d'America. Racconta l’esperienza di essere riconosciuti e considerati diversi, incomprensibili, anche alieni. Rappresentativo di questa circostanza, “Stranger in the Village” analizza anche l'esperienza di essere neri in Europa, ed essere un artista nero nel luogo di nascita dell'arte europea.
La logica riflette le tradizioni culturali nere che utilizzano figure retoriche (ironia, giochi di parole, improvvisazione) per invertire e giocare con le connotazioni di codici prestabiliti. Queste tecniche creano nuovi significati e sovvertono i canoni stabiliti; per esempio, il modo in cui una frase standard in inglese può avere un significato completamente diverso in inglese afro-americano vernacolare. Virgil Abloh applica queste tecniche alla sua metodologia di progettazione, impregnando la grammatica di archetipi riconosciuti con genetiche diverse.
L'artista concettuale Lawrence Weiner costruisce una serie di schemi di aforismi legati a queste premesse: “YOU CAN TELL A BOOK BY ITS COVER”, “THE SAME PLACE AT THE SAME TIME”, “(SOMEWHERE SOMEHOW)”.
In tutti i capi e gli accessori, i motivi e le tecniche giocano sui temi dell'illusione, replicando il familiare attraverso le lenti ingannevoli del trompe l'oeil, del filtrage e del ri-appropriarsi del normale attraverso l'elevazione estrema. Che alimenta lo studio del ‘un-designed’: oggetti privi di proprietà artistica ed esatta provenienza storica. L'invito fisico alla sfilata è un modellino di aereo in legno di balsa ‘do it yourself’, un eterno simbolo di fanciullezza priva di proprietà artistica. «Chi ha deciso che il bicchiere è di carta? Chi chiodo in metallo? La matita? Si pone la domanda di chi può rivendicarne l’invenzione: chi può fare arte e chi può usufruirne. Concepiti al di fuori della sfera artistica, non progettati ed essenzialmente “normali”, gli oggetti rappresentano un dominio pubblico continuamente reinventato e rivendicato dal settore dell'arte».
Come conseguenza, la normalità è accentuata: il torpore in cui scivoliamo in seguito a periodi di instabilità sociale. Che aspetto ha la normalità, cosa significa e chi ha il privilegio di rappresentarla? Virgil Abloh porta in primo piano la sua idea consolidata di “Tourist vs. Purist”: il suo termine per l'outsider, colui che aspira ad un dominio esoterico di conoscenza contrapposto all'insider, chi lo occupa già. La collezione rileva i rispettivi codici per sfidarli e unificarli.
I capi e gli accessori più iconici e degni di grandissima attenzione? Senza dubbio i maxi cappotti con gli aerei al posto dei bottoni; i guanti lunghissimi, di pelle, da indossare con camicie «working» dalle maniche corte; i cappelli dalla tesa larga e i boots che si ispirano vagamente al mondo dell'Old Wild West; gli abiti formali, doppio petto, dalla silhouette ripensata anni Settanta; i capi tridimensionali che rendono i look ancor più realistici, con tanto di metropoli e grattacieli (anche se visti in maniera digitale), ma anche Parigi con la cattedrale di Notre Dame e la riproduzione della Tour Eiffel che penzola, attaccata al bomber; la bag Monogram a forma di aeroplano giocattolo, e la valigeria Silver brillante. Davvero, da collezione.
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