Ok, ma come viene scelto un direttore creativo?
STYLE
9 Aprile 2024
Articolo di
Camilla BordoniOk, ma come viene scelto un direttore creativo?
Una parte del fashion system è spettatore passivo della danza tra brand e direttori creativi. È un’affermazione abbastanza ovvia, tanto che per capirla non serve per forza intendersi di moda. Chi negli ultimi tempi ha infatti acceso una televisione o è entrato almeno una volta sui social si sarà perfettamente reso conto di questa dinamica querelle. Un passo a due, invero, capace di assicurarsi parecchio rumors online e perché no, per i più fortunati, pure un balzo pirotecnico in borsa.
Chiamatelo valzer o tango come gli addetti ai lavori amano definirlo, ma questa situazione dove da un brand esce, entra o si ritira un designer è forse uno dei momenti più significativi del settore perché obbliga a chiederci chi sarà il suo successore. Una domanda che di fatto porta a riflettere su diversi aspetti, come la futura strategia di una griffe, un suo possibile cambio di rotta o una ritrovata sensibilità commerciale in grado di ammaliare l’agognato portafoglio asiatico. Quindi: come viene scelto un direttore creativo?
Una nuova era
Uno dei motivi per cui viene eletto un direttore creativo piuttosto che un altro può essere puramente quello di voler dare nuova linfa all’heritage della casa, scommettendo sul twist inaspettato e innovativo di un designer. Per spiegare meglio, Gucci e Valentino rappresentano gli esempi perfetti in tal senso. L’uno tornato allo stile minimal e posh con Sabato De Sarno dopo l’epoca massimalista firmata Alessandro Michele, l’altro che proprio con quest’ultimo ha annunciato un nuovo corso.
Al di là del brand e del creative director, ovviamente il “reinventarsi” andando contro corrente rispetto a una linea narrativa che si ha seguito per anni, a volte da sempre, ammette dei rischi ma di solito il verdetto riguardo la decisione arriva subito dopo le reazioni alla prima collezione e i numeri del venduto in store.
Il mio stile e il tuo combaciano
Cosa accada di preciso nella sala riunioni di un marchio non è dato saperlo. Quando però un direttore creativo deve essere sostituito da un collega, le alte poltrone che guidano il business della firma sono chiamate per forza in causa. Soprattutto se la storia della maison è ritenuta ingombrante, o un simbolo troppo distintivo da voler stravolgere, la ricerca deve essere necessariamente minuziosa.
È auspicabile pensare che, in questo caso specifico, il direttore creativo venga vagliato tenendo in considerazione la sua adesione ed affinità stilistica ai codici della casa, oltre all’expertise maturata precedentemente. Questo non vuol dire che lo stilista non apporterà innovazioni, solo che non ne sconvolgerà l’immagine e l’idea di lusso percepita dal consumatore. Si veda per esempio il caso di Hedi Slimane. Prima da Saint Laurent poi da Celine, il suo lavoro ha trovato approvazione sia in house, sia fuori con una conferma positiva dal suo target. Nonostante le differenze delle due etichette infatti lo stile ha trovato una continuità in codici estetici comuni.
Tra coerenza e novità: il confortante sold out
Quando non è la crisi mistica di un designer, è il vile denaro a essere la causa principale della dipartita di un direttore creativo. Perché sì, anche e soprattutto i grandi conglomerati del lusso guardano ai dati del fatturato e se questi non rispecchiano le previsioni attese per due o tre trimestri allora la corsa al riparo è un obbligo.
D’altronde non sempre una collezione che piace è anche una con il forte potenziale commerciale. Almeno non per tutti i mercati. Quindi come risolvere questo impasse? Optando per uno stilista che assicuri le vendite al limite del possibile. Pragmaticamente parlando, ci sarà pur una ragione se il nome di Simon Porte Jacquemus salta sempre fuori come possibile pretendente, ogni qualvolta un marchio rimane senza una guida? Certamente sì, e si può riassumente con un marketing win-win e un sold out certo al 98%.
La fashion family cresce con un direttore creativo vip
Forse non tutti ricorderanno che nel lontano 2009 una biondissima Lindsay Lohan era stata nominata come consulente creativa di Ungaro, lavorando così al fianco della designer Estrella Archs. Neanche a dirlo, questa partnership di design era stata accolta con clamore e cassata sul nascere, considerandola già alla prima prova un disastro su tutta la linea. In realtà era semplicemente troppo avanti con i tempi (dal momento che molti di quei pezzi si vedono sfilare ora, con tanto di cuoricini sul seno) ma questa è un’altra storia. Il punto è che la Lohan anticipò, per così dire, quello che è l’incontro attivo tra moda e celebrity.
Oggi è più socialmente accettato che personalità note provenienti da una comunità diversa da quella del fashion system fondino una griffe o ne prendano in mano le redini. Si veda il caso di Louis Vuitton con Virgil Albloh, direttore creativo della linea uomo ma prima di tutto architetto, imprenditore, dj e produttore.
Grazie al suo approccio cross-culturale fu in grado di ingaggiare nuove generazioni di consumatori contribuendo a rafforzare la brand image e l’allure della firma francese. La sua prematura morte generò anche per questo parecchio fermento all’interno del gruppo LVMH ed eleggere il suo successore fu di certo impresa ardua. Come mantenere alto l’hype della casa non discostandosi troppo dalla rivoluzione di Abloh?
La scelta più sicura (se mai ne fosse esistita una) fu optare su un’anima affine, almeno sulla carta. Il cantante Pharrell Williams ne raccolse così l’eredità e lo storytelling diventando la guida del menswear e superando ampiamente le aspettative dei fan e, soprattutto, dei buyer.
Sarà che con Louis Vuitton aveva già collaborato insieme al direttore creativo Marc Jacobs, sarà che poi non era così estraneo alla moda (vedi le collaborazioni con Chanel o adidas o i suoi progetti con Nigo, ndr), ma la scommessa risultò vincente. Poiché a ben vedere aiutò ad allargare la community del brand, portando i suoi amici nel front row degli show, e a proseguire la scia di una moda più personale–generazionale, giusta per la maison, in grado di far entrare in boutique. Insomma mai come in questo caso anche gli alti dirigenti avranno cantato Happy a gran voce.
advertising
advertising