Vale più il brand o il direttore creativo?
STYLE
8 Ottobre 2024
Articolo di
Camilla BordoniVale più il brand o il direttore creativo?
Anche chi non segue assiduamente il settore se ne sarà reso conto; quest’anno con tutti i giri di poltrone e i cambi alla guida stilistica delle case, la moda sta vivendo pubblicamente una crisi esistenziale portando il fashion system a porsi necessariamente un quesito: vale più il brand o il direttore creativo? Un punto interrogativo fastidioso questo che si avvalora dei risultati economici delle firme e dei big luxury group per ampliare brutalmente il suo significato sotteso, diventando “in soldoni” il seguente quesito: «Un determinato marchio fa hype in sé e per sé o solo perché dietro c’è l’estro unico ed eccentrico di un determinato designer?»
È vero, è un argomento spinoso che pone tutti, nessuno escluso, in una situazione scomoda da cui non si può fuggire in modo semplice. Perché in fondo è come quando il frontman della vostra band preferita se ne va o viene sostituto da un’altra voce, tocca scegliere. Tocca chiedersi: «seguivo la sua musica o l’orchestra generale?». Compravo Gucci o Alessandro Michele? Andavo pazz* per Celine o per l’estetica di Hedi Slimane? Collezionavo felpe di Off-White o un pezzo sold out di Virgil Abloh? Carissimi trend setter shakespeariani, questo è il dilemma…
Brand vs Designer: tra coerenza e novità
Non si può dire che il 2024 non abbia tenuto impegnato il côte modaiolo e gli addetti del settore. Tra collezioni e dati di fatturato infatti si sono ritrovati a fare i conti con il caldo bollettino delle fashion news. In particolare quelle che riguardavano l’uscita o l’entrata di uno stilista da/in un marchio e che irrimediabilmente poi finivano per rimbalzare nel feed Instagram di mezzo mondo, alimentando i gossip.
Lo story time dell’ultimo anno di fatto parla da sé dal momento che di hot buzz ce ne sono stati parecchi; pensate per esempio al ritiro di scena di Dries Van Noten dalla sua omonima casa, alla dipartita di Peter Hawkings da Tom Ford, a quella di Walter Chiapponi da Blumarine o quella di Virginie Viard da Chanel, maison ancora per il momento senza una guida.
Tenete però ben presente anche gli ultimi giri di valzer che hanno agitato gli animi in quest’ultimo periodo, come la cessione da parte di LVMH di Off-White a Bluestar Alliance o come l’exit di Hedi Slimane e l’entrata di Michael Rider da Celine, la separazione di Filippo Grazioli da Missoni dopo soli due anni e quel debutto ufficiale tanto atteso di un certo Alessandro Michele da Valentino.
Ora, non vogliamo parlare della questione Gucci/Valentino (perché già molto si è detto) quanto piuttosto di stile ed universo estetico, due concetti che forse aiutano a capire meglio l’impasse che prima o poi affligge tutti gli analisti di moda. Perché gustibus non disputandum est, ma numeri e cifre non perdonano e talvolta sono giudici spietati.
Per stabilire se valga più il brand o il direttore creativo si dovrebbero prendere in esame innumerevoli variabili e, qualora si giungesse a una pseudo soluzione, questa non dovrebbe essere considerata come una verità assoluta ma solo una fotografia di un determinato periodo a cui corrispondono trend di mercato specifici e uno zeigeist culturale generale.
Per semplificare, prendete in considerazione la fase Gucci di Michele, lasso in cui le vendite della casa in seno a Kering hanno registrato un aumento costante, toccando quote a due cifre. Dopo l’uscita dello stilista e l’addio definitivo al massimalismo, la maison dalla doppia G con Sabato De Sarno non ha ancora raggiunto i risultati che i vertici speravano, nonostante un primo momento di hype e la forte comunicazione del “Gucci Ancora”.
Eppure l’universo di De Sarno con la sua estetica posh super portabile, un po’ patinata alla Tom Ford e minimal piace alla stampa, agli influencer e ai social, ma allora perché non mette a segno le stesse cifre? Su un articolo di Vogue Business circa il tempo necessario che dovrebbero dare i marchi ai designer per raggiungere il successo, l’analista Robert Burke ha dichiarato che la moda non vuole tanto coerenza, quanto più novità. Ed è forse proprio questo il punto focale dell’intera questione.
“Divergenze di management” e figure totalizzanti
Il più delle volte, quando uno stilista lascia una casa, nei comunicati stampa capita spesso di leggere nelle motivazioni frasi come: “perseguire nuove sfide professionali” o “per divergenze di management”. Quest’ultima in particolare fa intuire non solo che di fondo c’entra il vile denaro, ma anche che all’interno del team stile-produzione-distribuzione-marketing si sono create delle divergenze di vedute tali da non poter proseguire ulteriormente la relazione.
L’uscita di un designer da un brand non è chiaramente un fatto di per sé disastroso, il problema però può nascere quando tale guida allo stile diventa una figura totalizzante in grado di “sovrastare” il marchio, rendendo così difficile l’apprezzamento del suo successore al pubblico. Non è un’eventualità così inconsueta, d’altra parte, al di là di Michele, successe in precedenza anche con Jonh Galliano da Dior.
Tuttavia è chiaro che la cultura dell’hype può essere d’aiuto all’erede di una griffe che, grazie al marketing, può avere due margini di manovra: o stupire discostandosi quasi completamente dall’heritage della casa (o almeno da quello che fino a quel momento era universalmente riconosciuto come savoir-faire), o riprendere vecchie formule che hanno funzionato in passato aggiornandole quel poco che basta da farle andare sold out nel momento dell’arrivo nei negozi.
È doveroso però specificare che sulla carta queste due pratiche possono certamente funzionare, ma che nella realtà dei fatti le cose sono molto più complicate di così. Perché se è vero che ci sono casi come quello di Hedi Slimane, che è riuscito a mischiare egregiamente il suo stile con i codici di Saint Laurent, Dior e Celine (tanto che ora molti lo vorrebbero vedere prendere le redini di Chanel), ci sono anche quelli come Ludovic de Saint Sernin che alla guida di un marchio altrui (Ann Demeulemeester) sono durati solo pochi mesi non riuscendo a replicare lo stesso successo della propria omonima firma.
Ma quindi vale più il brand o il direttore creativo? A questo noi non possiamo ne vogliamo rispondere. Quello che però è sotto gli occhi di tutti in questo terremoto che la moda sta provocando è che lavorare per maison in seno a grandi gruppi di lusso offre sicuramente disponibilità economiche ingenti che possono permettere allo stilista di veder concretizzati i propri abiti a un livello qualitativo più alto o di mettere su show altamente performativi. Dall’altro lato, essere lo stilista di una propria casa garantisce una maggiore autonomia e indipendenza espressiva. Quindi forse, come in tutte le querelle che si rispettino, quello che conta di più è come sempre la libertà e il prezzo da scontare per ottenerla.
advertising
advertising