Con il fast fashion la moda è per tutti ma è anche inclusiva?
STYLE
16 Aprile 2024
Articolo di
Camilla BordoniCon il fast fashion la moda è per tutti ma è anche inclusiva?
Chiunque abbia mai fatto un’esperienza d’acquisto all’interno di uno store di una catena fast fashion sa dell’esistenza di un problema paradossale: ovvero che il prezzo potrà anche essere per tutti, ma l’offerta non sarà mai davvero inclusiva.
Al momento della prova in camerino, infatti, il pericolo di ritrovarsi per le mani capi troppo grandi, troppo stretti, troppo lunghi o troppo corti, nonostante la taglia indicata sia quella che tradizionalmente si indossa, è pericolosamente alto. Anzi il più delle volte su dieci pezzi, tre risulteranno non fittare a dovere sulla figura, due avranno misure completamente diverse e uno starà benissimo, però «peccato per quelle tasche che escono».
Insomma, la storia che fare acquisti rilassa e fa bene all’umore è vera fino a un certo punto. O meglio, fino a un certo canone estetico. Non è solo una questione di size numbers sui cartellini (che comunque cambiano a seconda del paese di riferimento), ma è anche una questione di forma. Perché i corpi non sono uguali, ma il modello su cui si basa la produzione di un determinato articolo fast fashion sì.
Moda e inclusività: il problema dei (tre) corpi
Un esempio di moda davvero inclusiva? Nel film “The sisterhood of the traveling pants” lo stesso paio di jeans viene indossato perfettamente da quattro amiche nel corso di una estate. Ebbene, quel magico denim viaggerà da un punto all’altro del globo vestendo straordinariamente Blake Lively, America Ferrera, Alexis Bledel e Amber Rose Tamblyn nonostante fisicità, pregi e difetti diversi. Dispiace però, perché, appunto, è solo un film e per quanto il tessuto sia stretch nella realtà è quasi utopico trovare un pantalone del genere, anche se sarebbe davvero un punto a favore per la sorellanza.
Solidarietà che però quando si tratta di “size problem” (generalizziamo il termine, ndr) trova voce online, soprattutto su social come TikTok, dove il format che si ripete è quasi sempre lo stesso. La location è il camerino o la propria casa, mentre il mantra verbale rimbalza tra un: «Questa dovrebbe essere una L e questa una S?», «Su che standard realizzate questi vestiti?», «Come è possibile che la vita mi arrivi al collo?». Quindi ogni volta che proviamo a fare shopping ci imbattiamo nel frutto di un’idealizzazione corporale? Sì e no. Il punto è che in ballo ci sono specifiche dinamiche, politiche e strategie di mercato.
Partendo dal presupposto che le aziende di fast-fashion come il gruppo Inditex gestiscono più marchi con target differenti (per età, prezzo, stile ecc..), è facile dedurre che, di conseguenza, anche gli stessi brand tenderanno a proporre un’offerta standardizzata che si adatti al consumatore di riferimento.
Così scegliere un abito sulla scia dell’abitudine o basandosi sulla foto dell’online shop non è più possibile perché quello che di base l’azienda fa è stereotipare il cliente ideale tipo e su quello farne un modello, non tenendo conto delle particolarità morfologiche. D’altro canto stiamo pur sempre parlando di fast-fashion e non di “su misura“. Quando poi sui rispettivi siti online (anche per via del continuo dissing mediatico) brand come H&M iniziano a specificare la vestibilità delle taglie con infografiche semplici ma chiare che si può dire? Quindi …1-1 e palla al centro (?)
Vanity affair e vanity sizing
Abbiamo anticipato che l’incongruenza tra fit e cartellino può essere anche il risultato di una strategia commerciale. Ebbene, ricordiamoci che stiamo parlando di moda, un segmento che in parte può essere considerato un vanity affair, perché ci si veste per sé stessi ma anche per gli altri. Questo il marketing lo sa perfettamente e allora quale miglior escamotage se non quello di puntare sul vanity sizing. Si tratta di una pratica che mira ad alterare le misure per mostrare ai consumatori di adattarsi a taglie più piccole. Semplificando, per esempio, una 38 diventerà idealmente una 36. Nella mente dei clienti si scatenerà così una un sentimento di felicità, che li incoraggerà con molte probabilità a spendere di più (e pesarsi di meno).
Questo ridimensionamento di taglie però può avvenire anche nel senso opposto ma lasciando “incredibilmente” invariato l’effetto sortito. Studi sul fenomeno hanno rivelato che il consumatore vede anche nella size in più un motivo di spesa compensativa. Magari non comprerete quel pantalone, ma un altro sì. E se la gamba del modello che avete scelto sarà troppo lunga e del tailor made il portafoglio non vuol sentire parlare, allora l’opzione migliore è andare da un sarto per adattarlo. D’altra parte tutto ha un prezzo, anche l’inclusività.
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