Lavorare nella moda è davvero un privilegio?
STYLE
11 Aprile 2024
Articolo di
Camilla BordoniLavorare nella moda è davvero un privilegio?
Sfatiamo un mito: lavorare nella moda non è come vivere in una puntata di “The Bold Type”. Per assurdo, tra stereotipi e certezze, è molto più “fittante” (in questo pezzo useremo termini che al settore piacciono, ndr) la rappresentazione che ne ha dato l’iconico e intramontabile “Il Diavolo Veste Prada”. I ritmi frenetici, schedule stringenti, la skill performante del multitasking, un lieve accenno al burnout, la totalizzante devozione al fashion, ma anche la creatività, gli eventi ed i viaggi erano tutti elementi che la pellicola del preistorico 2006 aveva incluso.
Ebbene, i pro e i contro erano lasciati ben intendere e la verità la avevamo già tutti davanti agli occhi. Eppure, rewatch dopo rewatch, alla fine ci si ritrova sempre a chiederci: «Perché mai Andrea non risponde a quella chiamata di Miranda e manda a benedire tutti suoi sforzi, con annesso il cellulare, nella fontana di Place de la Concorde?».
Interrogativo lecito, ma forse sarebbe più adatto domandarsi cosa avremmo fatto noi al suo posto. In fondo non c’è un responso giusto o sbagliato, ma solo soggettivo dal momento che la moda è una questione estremamente personale. Definirlo il “dream job”? Opinabile, perché finché non ci sei dentro non lo sai… almeno, non sai se lo è dei tuoi di sogni.
Realtà vs ideale: la dura legge del fashion
Dire di lavorare nel mondo della moda, ammettiamolo, genera automaticamente l’ammirazione negli occhi dell’interlocutore. C’è poco da fare, i mascherati difetti del fashion system non oscureranno mai la sua allure patinata e posh. La sua immaginifica idea continuerà a prosperare, senza mai rompere l’incantesimo dei clichè che la compongono. Uno tra tanti, quello che chi nella moda ci lavora debba avere di conseguenza, e in maniera direttamente proporzionale, un vita glamour con quel pizzico di drama adattissimo per essere una Carrie Bradshaw 2.0. La realtà però è ben diversa dalle aspettative, quanto meno per gran parte degli addetti del settore.
Partendo dal presupposto che ogni lavoro ha i suoi pro e i suoi contro con annesso un codice comportamentale ben preciso, chiunque abbia avuto a che fare con il fashion system per più di una settimana, si sarà accorto dell’esistenza di regole (implicite o meno) a cui bisogna tassativamente sottostare, pena il ban soprattutto se si è alle prime armi.
Dai designer all’ufficio marketing, fino ai PR e i giornalisti, il battesimo della moda è il più delle volte sadicamente brutale. Parole come gavetta, orario di lavoro poco flessibile, paga al di sotto del minimo sindacale e, diciamolo, anche discriminazione, faranno parte del gioco per molto tempo e solitamente ce ne si rende conto dopo i primi mesi di stage.
Di fondo all’inizio c’è un po’ di illusione, questo perché in prima battuta si è più portati a vedere la propria stilosa carriera con gli occhi di un consumatore tradizionale, che a tutti i costi vuole far parte di un modo diverso da quello comune. Lavorarci però è un’altra cosa e tra il sogno e lo sfruttamento il passo è davvero brevissimo.
Moda: il prezzo da pagare per il dream job
A prescindere dal mestiere che si decide di intraprendere nell’ambito del settore, c’è infatti un altro scomodo dato di fatto che emerge perché per quanto lavorare nella moda sia “socialmente validante”, bisognerà fare i conti con l’altra faccia della medaglia.
Secondo un sondaggio esclusivo di Vogue Business condotto su oltre 600 professionisti emerge infatti una discriminazione sistemica all’interno del settore, con tanto di stili di vita insostenibili e una diffusa cultura del burnout. Ora, anche se tale risultato è frutto delle opinioni di intervistati per gran parte americani ed inglesi, è possibile vidimarlo anche sul territorio italiano, in particolar modo quando nella ricerca si prende in considerazione il fattore economico.
Sempre tenendo conto delle dovute eccezioni, chi ha fatto un giro su Linkedin o sulle piattaforme di recruiting specializzate di certo sa perfettamente la facilità di trovare in un annuncio la scritta “volontariato” a fianco alla parola retribuzione.
Quindi è facile credere di poter generalizzare la ricerca quanto l’indagine di Vogue testualmente evidenzia:
Nella moda prevale l’idea che le persone dovrebbero essere disposte a lavorare gratis, perché operare in un ruolo così “glamour” è un privilegio. Solo chi ha un vantaggio economico – genitori che possono pagare l’affitto o sovvenzionare il reddito – o un capitale culturale, connessioni sociali e mentori che aiutano ad aprire le porte, è in grado di sfondare comodamente.
Vogue Business
Chiedetelo a giovani designer dei brand emergenti considerati super cool e vi risponderanno della estrema difficoltà che hanno nel farsi sentire nonostante la fama sulla carta. Insomma, il fashion system è severo, se poi sia anche giusto lasciamo ai posteri l’ardua sentenza.
Tra paradossi e meme: ridi che ti passa
Purtroppo non sempre lavorare nella moda dà libero accesso a una cabina armadio grande quanto un piano del palazzo, né tantomeno a un Nigel personale che prometta un glow up blasonato solo perché sembra che abbiate un: «disperato bisogno di Chanel». Talvolta, e questo vale per tutte le professioni, per emergere ed essere riconoscibili serve costruirsi un personaggio dal momento che l’anonimato non piace nemmeno a chi veste quiet luxury.
Paradossalmente, questo conflitto tra realtà e apparenza potrebbe benissimo riassumere alcuni aspetti del mestiere. In fin dei conti anche se si assiste a shooting in location mozzafiato, si tocca con mano capi di alta moda o si partecipa alla realizzazione di una campagna di successo non vuol dire che non dobbiate fare i conti con la realtà, e dunque con le pentole lasciate nel lavello dal vostro coinquilino, le bollette da pagare o mail “Urgent!!” che arriveranno alle due del mattino. Come far fronte a questo melodramma shakespeariano? Semplicemente ridendoci su. Grazie a pagine come @1granary, @fashionassistants, @dankartdirectormemes e @stressedstylist, la cultura del meme è un porto sicuro.
Insomma, la verità è che tra il lavorare nella moda ed essere uno spettatore della moda c’è una grande differenza, a partire dalle scarpe che si indossano (se vi occupate di review di sfilate e dovete correre da una location all’altra senza un driver difficilmente indosserete un tacco 10). D’altra parte al momento della firma del contratto non vi si chiede di vivere un sogno, ma di venderlo.
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