Ci stiamo dirigendo verso il fast vintage?
STYLE
3 Aprile 2024
Articolo di
Camilla BordoniCi stiamo dirigendo verso il fast vintage?
Se la home di TikTok vi mostra solo video di haul, spacchettamenti e fit check di abiti comunemente etichettati di seconda mano, allora potreste essere vittima e carnefici del fast vintage. In sostanza si tratta di un fenomeno che riguarda l’acquisto compulsivo di capi usati, pensati non più come fashion pieces di valore ma piuttosto trattati come una banale penna usa e getta. Ma come un comportamento inizialmente etico può farci passare rapidamente da Avengers ai cattivi della storia?
Sembra paradossale ma è così, anche il segmento del second-hand (generalizziamo il termine) è caduto nel complotto diabolico del fast-fashion e la colpa, spiace dirlo, è solo nostra. Spoiler, purtroppo al momento il pianeta Terra non dispone del suo Tony Stark se non sul grande schermo, quindi ora occorre fare un po’ di chiarezza e luce su un comportamento d’acquisto che invece di seguire un ideale sostenibile si è adattato ai format e alle tendenze social.
Vado a fare la spesa al mercato
Tutto parte da una consapevolezza ormai radicata da anni, ovvero che la moda è uno dei settori più inquinanti del pianeta. Impatto sul clima, spreco di risorse, sovrapproduzione, greenwashing sono solo alcuni dei termini che almeno una volta tutti noi abbiamo letto da qualche parte. Insomma, a un certo punto il pungolante e giustissimo senso di colpa ci ha fatto avvicinare gradualmente al vintage: una categoria prima considerata elegantemente di nicchia, poi entrata a far parte del linguaggio comune o meglio di massa.
E fin qui tutto bene se non fosse che poi da massa è passata a essere troppo mainstream diventando il capro espiatorio per cavalcare l’algoritmo dei diversi social con contenuti ingaggianti ma che di positivo forse hanno solo il numero di like.
È una scomoda verità ma basta aprire, ancora una volta, TikTok per accorgersene. Solo l’hashtag #thrifting vanta più di un milione di post di cui molti sono accompagnati da quote come «andiamo a fare un giro al mercato» o «haul mercato». Il problema di questi video è che, inconsapevolmente o meno, favoriscono il fenomeno del fast vintage, dove ad andare di moda non è più tanto il second-hand ma piuttosto riprendersi alle 6 del mattino tra banchi e montagne di vestiti. Oppure condividendo quanto comprato tra le proprie mura di casa estraendo il tutto da sacchetti di plastica portati gloriosamente a casa.
Stiamo quindi rendendo il vintage una tendenza virale simile a una challenge da vincere? Sembrerebbe proprio di sì, specialmente quando sui social clip dal titolo «prendi tutto quello che entra nella borsa a 10 euro» si diffondono in modo virale mandando a benedire l’educazione al consumo. Ma d’altra parte dall’all you can eat all’all you can fit il passo è breve.
Il fast vintage che di vintage ha poco
Partendo dal presupposto che tra vintage e second-hand esista una differenza intrinseca, dobbiamo però sottolineare che l’esponenziale e irresponsabile acquisto di capi usati ha portato l’intero sistema moda a riconsiderare alcune politiche di vendita.
Si vuole per cavalcare i gusti della Gen Z (considerata la generazione più attenta alle tematiche green, ndr), si vuole perché il vile denaro è quello che fa tirare su la saracinesca tutti giorni, anche gli store del segmento non sono quindi né immuni né innocenti riguardo al fenomeno del fast vintage. In che modo? Intanto con l’aumento generale dei prezzi e in secondo luogo con una selezione discutibile di abiti.
Spieghiamoci meglio, se per esempio prima si poteva entrare in un negozietto e trovare (con una discreta fortuna) l’affare in un una giacca Giorgio Armani, ora il più delle volte, e con le più rosee prospettive, si può ambire a un blazer o una eco-leather jacket… e non dello stilista ma di Zara.
Sempre più store, siti di rivendita online o piattaforme come Vinted e Depop contemplano nella loro offerta anche pezzi di abbigliamento delle catene fast fashion. Questo accade soprattutto sulle app, dove alcuni utenti hanno trasformato il loro profilo in una vera realtà business, acquistando prima all’ingrosso per poi rivenderlo.
Si può trovare un pezzo di Prada affiancato a una camicetta H&M tranquillamente, provare per credere. Il punto qui però non è il reselling di questi ultimi ma la disparità di valore che viene percepita. Dal momento che si tratta pur sempre di un capo qualitativamente più basso il cartellino dovrebbe essere poi nettamente inferiore rispetto a uno di marca. Ma sad true story, non è proprio così.
E ora chiediamoci se questa precisa febbre da second-hand non guasti alle buone intenzioni e all’intima essenza di una pratica che dovrebbe renderci migliori. In conclusione? Facciamo tutti un esame di coscienza prima di strisciare la nostra credit card.
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