La viralità fa bene alla moda?
STYLE
1 Marzo 2024
Articolo di
Camilla BordoniLa viralità fa bene alla moda?
La moda ha un problema ed è la ricerca ossessiva della viralità. Non è un’affermazione esagerata, ma è un dato di fatto che oggi diverse fashion house per contribuire ad accrescere la loro brand awareness investano molta più cura e attenzione sulla presentazione di una collezione piuttosto che su quest’ultima.
L’obiettivo è ovvio, ovvero regalare al pubblico una performance memorabile pensata possibilmente su misura dello schermo di un telefono. Like, comment e repost sono la sacra triade del social marketing a cui le griffe sono devote. Ma quando il contorno diventa più importante della tradizionale raison d’être della moda, ovvero i vestiti, non è lecito chiedersi se tutto questo sia giusto o sbagliato?
Viralità: ricordo lo show ma i capi no
Siamo ancora nel vivo del fashion-month, tuttavia è già chiaro che più di uno stilista stia gareggiando alla tacita ma esplica competizione che incorona il “momento con più buzz di sempre”. Ovviamente questa non solo andrà ad incidere sui contenuti con un miv maggiore, ma paradossalmente potrebbe sancire il proclamato successo di una collezione, anche se poi in pochi effettivamente se la ricorderanno. Il fine primo non è massimizzare le vendite ma fare leva sul pubblico usando escamotage narrativi al limite della teatralità (come quello di vietare l’uso del cellulare a una sfilata, Olsen cit) e la veicolazione di messaggi più o meno sentiti, o in gergo “trend topic”.
Per spiegare meglio, un caso perfetto da analizzare è quello di Avavav, brand dall’allure fresco fondato dalla giovanissima Beate Karlsson, nota, tra l’altro, per aver sempre messo in scena show provocatori e unconventional. L’ultimo presentato durante la Milano fashion week non è stato da meno e anzi ha generato parecchio rumore sulle piattaforme.
Chi ha solo visto la sfilata senza conoscere la designer sarà sicuramente rimasto senza parole quando i guest hanno iniziato a tirare dei rifiuti addosso a modelli e modelle impassibili per tutto il défilé. Figuriamoci quando per il saluto finale Beate si è presa letteralmente una torta in faccia. Spreco di ogni genere? Gesto umiliante per chi stava a tutti gli effetti svolgendo il proprio lavoro? No, nulla di tutto questo e niente di inaspettato. Anzi, tutto deciso a tavolino e previo consenso.
Di base la stilista ha infatti voluto lanciare un messaggio contro il bullismo sui social, andando così ben al di là degli abiti che sfilavano tra rifiuti e screen di commenti d’odio da parte degli haters.
Ora, il video della passerella sopra le righe e stato uno dei più chiacchierati e ripresi dai media, tuttavia possiamo affermare con assoluta certezza che la creatività stilistica di Beate sia stata messa in risalto correttamente senza essere sopraffatta dalla trovata virale della performance? Da un primo scroll sui social sembrerebbe proprio di no. Perché quello che emerge è più l’hype generato dall’atto giullaresco del lanciare roba addosso a un bersaglio in movimento. La viralità ha quindi sacrificato quello che reputava sacrificabile e superfluo, cioè l’essenza del tutto: il messaggio e i fashion pieces (compresa la collaborazione con Eastpak per gli accessori).
È vero, la liaison tra abiti e intrattenimento nella moda c’è sempre stata ma un tempo era esposta diversamente per mantenere salda una narrazione complessiva in grado di generare aumenti delle vendite e non solo momenti memorabili.
Con Internet, i social, gli algoritmi la musica è ovviamente cambiata. I marchi sentono di dover soddisfare un pubblico che esige novità costanti, ricercando così quell’attenzione con strategie pensate per scalare il ranking online non per “merito artistico” quanto più per popolarità.
Dimostrarlo è molto semplice: ricordate lo show SS23 di Coperni grazie al vestito spruzzato addosso a Bella Hadid, ma di tutti gli altri look nessuna traccia. Un grande buco nero nella memoria. D’altro canto uno studio di qualche anno fa decretò che l’abuso della tecnologia avesse fatto scendere la nostra soglia dell’attenzione a una manciata secondi. Una sfilata, per quanto veloce, dura almeno dai 5 ai 10 minuti. A buon intenditor poche parole.
Il prezzo della viralità
Che fine ha fatto la gonna-asciugamano di Balenciaga? La belt skirt di Diesel, la pigeon bag di Jw Anderson e la cd bag o la borsa meteorite da 40mila euro di Coperni? Esistono ancora tutti, ma in pochi continuano a parlarne. Dopo il loro apice di notorietà, si sono persi in mezzo al resto della massa di quei pezzi pensati in parte perché socialmente “notiziabili” anche se poco indossabili.
La viralità c’è stata, è innegabile, ma quanto di queste chicche resterà impresso nella storia è opinabile. La moda si è fatta schiava delle oscure macchinazioni delle piattaforme senza rendersi troppo conto che così facendo si morde la coda. Diventa ancor più soggetta alla ricerca esasperante di un’esposizione mediatica superficiale, che più di permettergli di sfornare creazioni dal ciclo di vita minore di una rotazione attorno al sole non può.
La domanda da farsi a questi punti è una sola: la moda sta perdendo di vista sé stessa? Ai posteri l’ardua sentenza.
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